Ciatu di l’arma nostra

“Quannu iu moru, faciti ca nun moru, diciti a tutti chiddu ca vi dissi” e io di Rosa Balistreri vorrei parlare.
Una donna nata nel 1927 a Licata, che si spostò da emigrante a Firenze, dove visse fino al ritorno in Sicilia, a Palermo. Rosa cantava e raccontava la sua terra attraverso i canti di chi da piccola l’aveva cullata, di chi l’aveva chiamata “nicaredda”, ma anche liriche scritte per lei da Ignazio Buttitta.
Ho ascoltato la sua voce, il suo canto e le sue storie, in un giorno qualunque, spinta dalla curiosità di sapere chi lei fosse. Il primo ascolto, il secondo: la sua voce non lascia scampo, non lascia possibilità di distrazione. Voce angosciata, rabbiosa, portatrice di un dramma tutto nostro, che sa di scirocco, violenta e profonda. Traccia e ferisce, addolora e non abbatte, spinge a fare, a voler essere anche noi voci di qualcosa fino a poter gridare il proprio testamento da immortale. “Quannu iu moru, cantati li me canti, ‘un li scurdati, cantatili pi l’antri.” . Canti che si devono conoscere, perché è impossibile pensare di poter tenere sottoterra, in un passato lontano, una voce così forte e una richiesta di ascolto impossibile da ignorare.
Ed è la “terra can nun senti” quella di cui ci parla “Terra ca nun teni cu voli partiri e nenti cci duni pi falli turnari”. Disperazione e amore profondo, quasi a implorare quella terra di darci qualcosa, un motivo per restare, di offrire a noi, che le apparteniamo, ciò che ha, perché lasciarla non è facile, lasciarla dà dolore. Quasi a implorare un innamorato distratto di essere guardati e ascoltati, presi per mano. Implorare qualcuno che si ama di dare un motivo per non andare via, per non scappare. Una richiesta d’amore e vita. In cambio, il sacrificio di chi tutto ha già provato, ma che pensa di non avere smesso, richiesta e fiducia. “Sti vint’ anni di turmentu cu lu cuori sempri nguerra notte e jornu”.
Canti di bellezza e occhi colore del mare, di labbra dolci come zucchero e di amori. Amori passionali, ma che lasciano trasparire la purezza di un canto che culla, quasi di un ritorno all’età dell’infanzia dell’amato, a tenerlo stretto in un abbraccio, a cullarlo come si fa con un bambino, vezzeggiandolo e proteggendolo. Sono amori cantati con forza, anche questi con dolore, che feriscono. Non sono sentimenti lasciati a metà, non hanno indecisione, non hanno paura di essere affrontati. Sono amori che hanno in sé una ragione di vita, urlati con disperazione e dolcezza. E il suono della chitarra accompagna parole a noi care, parole e frasi ascoltate da bambini, ricordi di un affetto purissimo, di una mamma o di una nonna, adesso cantati a chi si desidera, a quella donna o a quell’uomo con estremo amore. E in quelle parole capirne la grandezza, quasi l’essenza stessa di un amore universale, che ben si esplica in parole come “ciatu di lu me cori, l’amore miu si tu”. Il ciatu che dà senso profondo a ciò che di più intimo si possiede, alla parte di sé che sa di respirare solo in quell’amore, un amore vitale, universale. Un canto lontano che parla di lotta, amore, giustizia, infanzia, che parla di tutti noi, in cui ritrovarci, da cui prendere forza. Immortalità, desideri e paure ancestrali, viscerali. E in quell’ascolto doloroso quasi a ferirsi, un pensiero le va a quel testamento “Quannu jù moru pinsatimi ogni tantu ca pi sta terra ‘n cruci murivu senza vuci”.

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