Esseri di gruppo… o parassiti di gruppo?

“I gruppi sono una parte inevitabile dell’esistenza umana: gli individui crescono in gruppi, lavorano in gruppi, giocano in gruppi, prendono decisioni in gruppi. In breve, gli esseri umani sono esseri di gruppo” (Brown).

 

Non è una novità.
Lavoro, famiglia, gruppi hobbistici, gruppetti che si ritrovano in un angolo della Vucciria ogni sera, amici, chat, forum, gruppi mentali, nazioni, comuni, gruppi spirituali, terapie di gruppo e chi più ne ha più ne metta.

Ogni gruppo che anima le nostre esistenze è un (s)oggetto organizzato e ‘vivente’, un fenomeno complesso frutto dei significati che gli vengono attribuiti dai membri, produttore di significati per chi ne fa parte e regista delle dimensioni del nostro Sé.
E l’uomo è un “Io” e insieme un “Noi”: siamo “Io” che racchiude tanti “Noi”, e il nostro “Io”, a sua volta, risiede negli altri “Noi”, in un rapporto reciproco, biunivoco, di transazioni e transizioni continue.

…Ma facciamo veramente attenzione a tutto questo? Siamo in grado di superare un illusorio quanto mai sfrenatamente attuale individualismo per accorgerci di cosa siamo fatti, da quanti gruppi interni ed esterni siamo animati e di quanti costituiamo una sfumatura seppur minima? Siamo in grado di vivere in modo sano e reciproco la dimensione gruppale di cui siamo impastati? 

Non credo. Perché quello che conta oggi è soprattutto questo inflazionatissimo Io, di cui il resto è mera suppellettile o appendice narcisistica pressoché in-organica.
Eppure, il costante bisogno di “appartenere”, di sentirci parte di qualcosa, non viene mai meno.
Per gli esseri umani il gruppo è lo spazio psicologico di riferimento, l’humus relazionale che alimenta il divenire della personalità soggettiva e del suo ‘destino’ sociale (Lewin). La sua centralità riguarda le stesse condizioni fondative dell’individualità. E, ancora, il gruppo è “il fenomeno più rilevante della vita sociale quotidiana” al punto da costituire lo scenario al quale facciamo riferimento anche quando siamo da soli; infatti, “a ben guardare, spesso, il tempo che trascorriamo da soli è speso per preparare l’incontro con gli altri” (Quaglino, Castellano e Casagrande).

Eppure, l’arroganza individuale e il non saper vedere al di là del proprio naso, nonostante esso sia sempre più spesso alla francese (miracoli del bisturi!), portano i singoli a percepire i membri dei propri gruppi non come persone, ma come posizioni o ruoli che meccanicisticamente si può mandare a farsi fottere, squalificare, disconfermare, dimenticare …come se ciò che l’altro dice/fa fosse poco importante e perciò non meritasse tutta la nostra attenzione e il nostro riguardo. E così saltiamo di palo in frasca, inventiamo scuse, siamo sempre troppo impegnati – poveri noi! – per assolvere a quegli oneri sociali che prima ci siamo assunti, ma che poi ci soffocano il libero pedem come scarpe strette.
L’assurdo è che cerchiamo per tutta la vita di farci riconoscere dagli altri, di non restare anonimi, di nutrirci delle loro attenzioni e di pascerci dei loro pascoli come risorse esistenziali senza cui ci si sente mediocri; ma al contempo siamo inconsciamente narcisi inautentici dimentichi di cosa significhi “reciprocità”, “gruppo”, “lavoro di gruppo”, “divisione dei compiti” e finiamo per trattare gli altri in un modo che, senza orpelli linguistici, definirei semplicemente strumentale. Ed è così che  da esseri di gruppo diveniamo facilmente, comodamente, sanguisughe di gruppo.
Perché questo è quello che facciamo ogni volta che ci prendiamo un responsabilità e poi “giochiamo” al pc mentre qualcun altro (es.: la mother) lavora per noi, che poi ci lamentiamo perché il suo piatto di pasta non ci piace abbastanza. Questo è ciò che facciamo ogni volta che non rispettiamo un impegno e che abbiamo la sfacciataggine di inventarci le scuse più plausibili del mondo per non rispettarlo.
Dimentichi soprattutto che il funzionamento di qualcosa di più delle nostre convenienze dipende dal ‘lavoro’ di gruppi, dal loro affiatamento, dalla cura con cui vengono coltivati i rapporti e i rispetti reciproci.
Perché niente sarebbe possibile con la forza dei singoli uomini, che dunque devono imparare a fare il salto della quaglia da “che me ne fotte, basta che sono contenta io!” a “questo è importante e merita attenzione e rispetto, altrimenti sovraccarico gli altri”.
Sì, bisogna tenerselo stretto questo valore di gruppo, perché nessuno è davvero indispensabile e non sei solo tu a decidere quando un gruppo è ‘una scarpa stretta’: un gruppo è un essere organico e un bel giorno non uno, ma tutti i componenti meno ciechi potranno decidere che la palla al piede sei tu con il tuo ego sproporzionato che ti rende stupido all’Altro.

Certo, “essere gruppo”, “fare parte di un gruppo” è complesso: tante e diverse teste devono confrontarsi per generare un unicum teorico-pratico che può anche cozzare con le singole convenienze del momento, generare limiti, impegni, responsabilità e mettere a rischio il Sé, spesso posto in dovere di abdicare all‘Altro.
Non tutti sono in grado di far parte di un gruppo: è necessario saper pensare su un duplice livello, relativo al significato che ciò che osserviamo assume “per noi” e “per gli altri”. Un pensare grazie a cui si è in grado di mettere in discussione il primato del ruolo soggettivo/individuale e di comprendere l’esigenza del lavoro “di” gruppo e della capacità d’ascolto, di empatia, di mettere in dubbio il proprio modo di essere, di riconoscere che l’altro da sé merita rispetto e dignità.
Il successo di un’attività dipende in grandissima parte dalla qualità delle relazioni gruppali, quindi chi non vuole o non sa essere veramente parte di un gruppo, eviti di rovinarlo. E chi vuole e sa riconosca di avere fortuna a farne parte.

Dunque, se al centro del mondo c’è l’individualissimo individuo, che a sua volta è un essere di gruppo, è necessario limare il naso al primo affinché impari a vedere oltre. Ad esempio, che far parte fino in fondo e per scelta di un gruppo è complesso, ma soprattutto meraviglioso.

Io sono parte di questo e di molti altri gruppi, li amo e li odio e lotto per la loro sopravvivenza pur con i loro moltissimi contro, perché è grazie ai loro pro e alla costante tensione al miglioramento di chi li anima che sono quella che sono e che tutti insieme (non da soli) facciamo quello che facciamo.

Sono fiera di esserne consapevole e di sapere che da sola non sarebbe esistito niente.
Non esisterei neanch’io, tu, voi.

Prendetene atto, e ‘scappellatevi’ più spesso di fronte a ciò di cui fate parte.

2 thoughts on “Esseri di gruppo… o parassiti di gruppo?

  1. Interessante.
    Però l’individualismo non è necessariamente negativo, secondo me, anzi. Spesso nel gruppo ci si rifugia per dividersi le responsabilità, spesso l’appartenenza cela una ricerca di identità. La lotta dei gruppi è quello che anima lo scontro tra le classi sociali, o tra i generi, o tra le “razze”, ed è in base alla difesa del gruppo che si attaccano le realtà esterne.
    Credo, quindi, che più che al rispetto per un gruppo, si dovrebbe invitare, al rispetto dei singoli che nel mondo incontriamo, ed essere aperti (gruppi aperti, individui aperti, personalità multiple e aperte) alla differenza, al contrasto, a quella insanabile differenza-distanza che caratterizza l’incontro tra Io e Tu.
    Il Noi di cui parli è una bella cosa, ma può diventare un concetto violento, secondo me, nel momento in cui non è inclusivo. Nel momento in cui barrica, chiude, esclude. Nel momento in cui crea la regola per cui Noi siamo noi, perché siamo diversi da Loro.

    Insomma l’individuo che decide di vivere come singolo, forse tradisce i suoi compagni di gruppo, ma tradisce anche quella parte di sé che vorrebbe essere protetta dai compagni, la espone, la rende passibile di premi e punizioni. Inoltre, forse, si apre a quelli che del suo gruppo non fanno parte, non essendo più portavoce di nessuna identità generale, ma solo della sua (complessa, multipolare, frammentata, non riassumibile in una sola parola).

    • Siamo perfettamente d’accordo, perché anche quello di cui parli tu è comunque un uso Strumentale del gruppo.
      Per quanto riguarda l’ultima frase, beh, un gruppo sano non è chiuso, anche questa chiusura è strumentale (e odioso aggiungerei). Quindi ancora una volta mi trovo in accordo.

      Il punto è che è molto più facile essere individualisti nel senso più malsano del termine e “usare” in modo altrettanto insano le nostre appartenenze che far parte in nodo sano di gruppi (di individui) che rispettiamo, riconosciamo e non roviniamo imponendo ciechi personalismi. Almeno, questo è ciò che vedo (e ho visto) io.

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