…E il Postmoderno dentro di noi (ovvero chi siamo o mai siamo)*

“La vita liquida, come la società liquido-moderna,
non è in grado di conservare la propria forma o di tenersi in rotta a lungo”
(Zygmunt Bauman)

Questo post appartiene a noi che non facciamo che chiederci in che mondo viviamo, chi siamo, non siamo o vorremmo e non vorremmo essere… senza accorgerci che in fondo NON SIAMO, no; piuttosto, aspiriamo e cerchiamo.
Ce ne accorgiamo, non ce ne aggiorniamo? Difficile capirlo. Come è difficile accettare di essere figli, frutti e incarnazioni non di noi stessi, ma di tutte le tumultuose frammentazioni della società attuale.
Questo post allora è per noi che non siamo che i radicali cambiamenti sensoriali, cognitivi e affettivi di un mondo in cui si moltiplicano i centri di produzione di senso, in cui tutto è ormai ibrido e multifocale. Noi che siamo processi di definizione identitaria, eclettici, indifferenti, liquidi. Noi che siamo il Postmoderno, che siamo dentro il Postmoderno che è dentro di noi plasmandoci strutturalmente fin dai primi vagiti o addirittura dalle prime cellule a cui il nostro cuore appena nato pulserà nutriente sangue materno. Noi che siamo figli e incarnazioni di un crollo pervasivo che ci scorre dentro come il plasma, come tutte quelle proteine, neurotrasmettitori, ormoni che influenzano la nostra personalità fin dalle sue fondamenta ossee e neuronali. 
Un crollo che ha ridimensionato il mondo e generato una riconfigurazione post-umanista dell’uomo, della dimensione antropologica del suo essere e di quella psicologica del suo Io, creando postmodernissime frotte di Narcisi ripiegati su se stessi, disimpegnati, desideranti e consumisti, sostenitori e vittime al contempo di un inflazionatissimo “Sii te stesso” (Dogana), di un Io dedito all’esaltazione egoistica della diversità e all’individualismo… Che però – come ci dice Bauman – possiede un’aporia di fondo: se essere INDIVIDUI significa “essere tutti DIVERSI”, allora… ognuno è uguale all’altro, giacché tutti con-corriamo omologatamente a un’esasperante ricerca di diversità! E allora, l’individualità, la ricerca del ‘vero me stesso’, appare come un obiettivo […] che, nel momento stesso in cui è dato, è destinato a non essere mai raggiunto (Z. Bauman).

Noi, che stiamo in un oggi in cui l’individuo è solo IL CONSUMATORE, le comunità sono solo RUBRICHE VIRTUALI e L’IDENTITA’ non riesce più ad essere altro che un dato anagrafico, piuttosto che un processo di costruzione, lungo, elaborato e mai finito. Noi che stiamo (“come d’autunno gli alberi le foglie”) in una società sempre più segnata dalla deregulation, in cui la strategia del carpe diem è la risposta più immediata a un mondo svuotato di valori che pretende di essere duraturo perché the show must go on, comunque e ovunque (Z. Bauman).
In questo oggi, scegliersi un’identità è fin troppo facile; tenersela stretta invece non lo è, poiché essa manca di consistenza, consapevolezza e solidità: come tutto, è liberamente e liberticidariamente arbitraria, è possibile rimangiarsela in ogni momento, non è vincolante o etica, né dà diritti e o responsabilità in un mondo individualmente e collettivamente deresponsabilizzato in cui TUTTO PUÒ ESSERE RIFIUTATO O SCONFESSATO A PIACIMENTO NON APPENA SI RIVELA SGRADITO O CESSA DI SODDISFARE.
Noi che dobbiamo sapere di stare in un mondo in cui la libertà assoluta che ci è concessa ci si ritorce contro generando uomini-nulla e uomini-oggettodipendenti dal Sé vuoto, incompleto, caratterizzato da una schizofrenia dell’identità che è costantemente scissa tra poli opposti ed entrambi egualmente desideranti, proiettati verso la gadjettizzazione frivola della vita.
Noi dobbiamo sapere di stare in un mondo di uomini dotati di un Io che non privilegia più una ricerca di senso che esce da sé; in un mondo in cui l’uomo non è… ed in cui questa mancanza di essere è una trappola inconscia che ci ripiega inconsapevolmente in antri di profonda vulnerabilità, fragilità e angoscia esistenziale.

Dunque, la cultura postmoderna ha creato e continua a creare individui insolventi, irresponsabili, disimpegnati, rinunciatari, attratti dalle gratificazioni immediate, dalle acquisizioni materiali e dall’affermazione (seppur fittizia e transeunte) di un sé che è però un Falso Sé: quello che Jung definiva la persona (ovvero l’apparenza inautentica che si mostra al mondo), che prende qui il posto dell’eidos, dell’essenza più intrinseca e autentica dell’essere umano.
La cultura postmoderna ha creato e continua a creare neo-sistemi di pensiero, neo-bisogni, neo-emozioni e neo-sofferenze che in realtà sono una falsificata reificazione di acquisizioni sociali in cui perfino un terapeuta o un amico possono oggi essere ridotti a gadjets, a oggetti di consumo transitori USATI per aumentare il proprio funzionamento e il proprio successo sociale, piuttosto che per approdare al proprio vero Sé.
La cultura postmoderna ha creato e continua a creare vite caotiche, confuse e alla deriva, con una costante esigenza di godimento immediato… Uomini che a 50 anni, quando non avranno più le forze per correre dietro alle loro chimere, si ritroveranno col nulla tra le mani: un nulla che puzza solo lontanamente di sé.

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Vi ci rispecchiate?
Io credo di sì, e credo anche che c’è da averne paura.

Il rimedio allora qual è? Rassegnarsi ad essere vittime mediocri di un ex-moderno che ci fagocita e che non si limita più a reprimere, ma che fa qualcosa di molto più raffinato omologando – ancor prima dei nostri pensieri – il nostro stesso essere a livello profondamente strutturale?
Lasciamo questa domanda al livello di una provocazione per quelle ragazzette di 28 anni che vanno fiere di possedere la smart di Hello Kitty e che non vedono l’ora di sperperare lo stipendio in 4 borse Guess.

Noi, insieme figli e intelligenti vittime del postmoderno, cerchiamo piuttosto di donarci una profonda onestà intellettuale, morale ed emozionale capace di riconoscere che cosa nella nostra vita postmoderna, e soprattutto nella nostra personalità postmoderna, è gadjet costruito dal mondo esterno, prodotto di artefatti psicologico-concreti imbeccatici, fattici masticare celermente con la compiacenza del nostro Es e del principio di piacere che nutre i nostri fragili, fradici narcisismi, rendendoci schiavi di un sistema umano che ci dà soddisfazioni sempre effimere, e mai reali, profonde, durature.

Noi, insieme figli e intelligenti vittime del postmoderno, cerchiamo di re-imparare a costellare il valore soggettivo degli eventi, di ri-creare contesti di senso, di appartenenza e di identità che si oppongano al caos ed alla frammentazione omologante del momento storico-politico-economico-sociale-culturale-individuale-etc.
E stacchiamoci temporaneamente dalla frenesia, fermiamoci e poniamoci delle domande (quelle davvero nostre!) su come questo neo-mondo si organizza e CI organizza.

Se ne siamo ancora VERAMENTE capaci.

“Guardo il mondo globalizzato.
È pieno di uomini costantemente in cerca di qualcosa d’altro. Sembra che corrano, invece sono FERMI, in una condizione di angosciante staticità. CREDONO di intercettare, di interpretare il cambiamento. Stanno bene solo quando arrivano prima degli altri, e questo indipendentemente da quale sia la meta. Ma pensiamoci un attimo: in realtà non progrediscono mai. Inseguono qualcosa che è fuori da sé, un modello che non esiste e che non possono raggiungere, perché non ha radici nella propria identità: un nuovo taglio o un nuovo colore di capelli, una nuova macchina, un nuovo lavoro, un nuovo corpo, una casa nuova. Una volta conquistati, sono già vecchi.
…E la corsa non finisce mai.”
(Laura Rufini)

* Riflessioni ispirate dall’intervento del prof. Daniele La Barbera al seminario “Nuove frontiere della psicoterapia” (Palermo, 22 marzo 2012) e dal successivo, fervido, confronto con Gas Giaramita.

2 thoughts on “…E il Postmoderno dentro di noi (ovvero chi siamo o mai siamo)*

  1. ESEMPI –>

    Con questo status dalla sua pagina facebook, Pierpaolo Capovilla abbandona il più popolare dei social network:

    Disattivo le mie pagine FaceBook.

    Arrivederci a tutti nella vita reale, ed in particolare ai concerti “dal vivo”, appunto.
    I social network possono essere certamente utili per rendere possibile un’interlocuzione fra il singolo e la società, ma ho l’impressione che siano diventati (forse lo sono sempre stati) dei luoghi dove lo scambio di idee troppo spesso diventa semplice ostentazione narcisistica, e dove quelle idee le esprimiamo con una compulsività tale -parlo anche e sopratutto per me stesso- da risultare null’altro che l’espressione di impulsi sociali dettati da un individualismo egotistico virulento, di cui mi voglio al più presto liberare.

    Si ha un bel dire dell’importanza politica dei social network in quei paesi dove ancora le società aspirano alla democrazia e al libero scambio di informazioni ed opinioni, cosa certamente vera. È altrettanto vero che in una società aperta, i social network diventano l’estensione di un edonismo tutto interno ai meccanismi più profondi della società dei consumi. Invece di unire, dividono: invece di farci incontrare, ci chiudono nella privatezza dei nostri avatar. Per come la vedo io, i social network dovrebbero rappresentare un’occasione di democrazia e di diffusione delle idee, ma non è così: implementano il nostro desiderio di apparire, impoveriscono il linguaggio e con esso l’ interlocuzione stessa, rendono caotica la nostra visione delle cose e del mondo. Dopo lunghe giornate di lavoro, ci rubano il tempo prezioso che ancora ci rimane per dedicarci alla vita vera, nostra e dei nostri affetti, ci spingono verso un presente interminabile, obliando il passato, nascondendo il futuro. Le nostre solitudini sono reali: temo che illuderci di emanciparle nella virtualità della rete, sia un grave e strategico errore relazionale.
    Certo, mi spiace per quel “contatto diretto” che il social network mi ha sempre reso possibile: quel filo diretto fra la mia persona e chiunque voglia dirmi qualcosa, sia quel qualcosa un’espressione di affetto o di rabbia, un suggerimento o una critica, un contributo o persino -va da se- un bel vaffanculo. Non mi duolgo per coloro che hanno tentato e tentano di intromettersi nell’amministrazione delle mie pagine: è non soltanto illegale, ma moralmente riprovevole. Pazienza.
    Vi rinuncio a malincuore, lo ammetto: per questo mi riprometto di registrare presto in rete un sito ed un blog attraverso i quali mantenere una qualche forma di relazione diretta fra di noi. È una cosa a cui tengo molto, ma non la voglio più affidare ad un social network, perché mi ha profondamente deluso: non produce discussione, ma soltanto chiacchiericcio, riflessioni nervose, frettolose e spesso incivili, piccole e grandi molestie reciproche, spesso associate a quella malignità tutta italiana che sembra uguale al disagio da sovraffollamento nel traffico urbano: tutti nella propria autovettura a dileggiare gli altri sfortunati automobilisti: qualunquismo di fondo, tristezza, angoscia sociale.

    Viviamo in un paese dove televisioni, radio e stampa sono sostanzialmente in mano a pochissimi soggetti economico/politici. Il pluralismo nell’informazione è illusione e spettacolo: lo chiamano elegantemente info-tainment. I media dettano l’agenda delle nostre discussioni, del nostro vocabolario, dei nostri pensieri. L’istruzione pubblica è stata squalificata e vilipesa dal ventennio berlusconiano, e non vedo all’orizzonte alcun desiderio sociale di riscatto da questo desolato deserto culturale.
    Ho creduto e ancora credo che la rete potesse e possa costituire un “contro-potere” a questo stato di cose, ma temo che il sentiero da percorrere sia ancora lungo.

    Si dice e si pensa: la comunità virtuale ti permette di vivere la contemporaneità fino in fondo: senza social network sei tagliato fuori, sei fuori dal mondo. Io credo sia vero l’esatto contrario: i social network sono parte integrante del problema, non della soluzione.

    Spensi la tv vent’anni or sono. Spengo soltanto oggi questo tranello chiamato FaceBook.
    Buona vita a tutti, con l’augurio, a voi tutti e a me stesso, di fare buon uso delle nostre passioni, aspirazioni e desideri, della nostra voglia di cambiare questo paese, e di renderlo più uguale e più giusto: è una battaglia per niente facile ed irta di ostacoli spesso così grandi da farci pensare che non valga la pena d’esser combattuta.

    Love to You All.

    Pierpaolo Capovilla

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