Allora gli si accostò dicendo: «Rabbì» e lo baciò (Marco 14,45)

di Filippo Di Liberto

Sono convinto che per raccontare e scrivere certe storie sia necessario essere degli automi, non possedere alcuna qualità che possa ricollegarsi a quella più alta di umanità. Comincio così a raccontarvi questa vicenda per amor di verità, perché sto per descrivervi la storia di un tradimento, non un banale tradimento coniugale, sarebbe troppo semplice; è un tradimento che una donna ha messo in atto per vendetta, forse, per libertà, per determinazione oppure per cercare una via di fuga da un destino che altrimenti sarebbe stato irrimediabilmente segnato.

celesteIl nome della protagonista è Celeste; a detta dei vicini di casa e dei suoi fratelli è una ragazza bellissima, disinvolta e disinibita. Certe qualità, nell’epoca in cui Celeste ha vissuto, probabilmente non dovevano essere molto apprezzate.
Celeste vive a Roma, in una zona molto caratteristica della città eterna, zona dell’antichissima pescheria nei pressi del Portico di Ottavia, tra le vie del Tempio e Catalana, a poche centinaia di metri dal Lungotevere De’ Cenci, là dove le rive del Tevere bagnano la suggestiva Isola Tiberina; chissà quante volte, proprio Celeste, si sarà ritrovata a passeggiare su quel Lungotevere a sognare di fuggire da quella grande e immensa città così chiusa ed opprimente che stava lentamente sparendo.

Celeste è ebrea. Una bellissima ragazza ebrea. Per aiutare la sua famiglia a sbarcare il lunario, comincia sin da piccola a lavorare, accettando i lavori più umili: donna di servizio nelle famiglie più facoltose del suo quartiere, aiutante nella sartoria della Sora Gina; certamente il lavoro che le stravolgerà la vita è quello di cameriera nella trattoria di Piazza Giudìa, Il Fantino.
La bellezza, come è noto, è un’arma a doppio taglio, per se stessi e per colori i quali circondano chi questa qualità possiede. Proprio la bellezza di Celeste, così luminosa, le varrà il nomignolo di Stella; una stella rimane comunque una palla di fuoco, e si sa che dal fuoco è meglio starne alla larga, perché prima o poi finirà per causare del male, per procurare dolore.
Al Fantino celeste incontra Vincenzo, un giovane scellerato di professione, con il quale comincerà una relazione amorosa. Vincenzo non era come i tanti che Celeste vedeva nella trattoria e nel suo quartiere, Vincenzo era diverso. Non era ebreo. Vincenzo, al contrario, agli ebrei dava la caccia; già, perché era il capo di una delle bande al soldo delle milizie tedesche che spadroneggiavano in città.

kapplerNella Roma nazista degli inizi degli anni Quaranta l’attentato ad un battaglione delle SS non poteva e non doveva passare inosservato. Doveva essere punito. L’ordigno esploso in via Rasella, alle spalle di via del Quirinale, il 23 marzo 1943 pesava diciotto chilogrammi; diciotto chilogrammi di rancore, vendetta e liberazione che dovevano essere puniti. Così Kappler, a capo delle SS d’istanza a Roma, ordinò la cattura di tutti gli ebrei della capitale. I canari pronti a servire, tra cui Erich Priebke, sguinzagliarono i propri cagnacci per le vie della città. Tra quei cagnacci c’era anche Vincenzo. Per lui fu certamente facile convincere Celeste, facendo leva sui piani più fragili del suo duttile animo, la libertà dalla tradizione, dalla famiglia e dalla propria religione.
Così la Pantera Nera, un altro soprannome di Celeste, agisce; il piano tanto semplice quanto spregevole: Vincenzo e i suoi sgherri seguivano da lontano Celeste in una delle sue solite passeggiate. Campo de’ Fiori era il loro terreno di caccia prediletto, chiunque salutasse o ricevesse il saluto caloroso della Pantera Nera era ebreo, quindi colpevole, dunque andava punito. La spietatezza di Celeste passò il limite quando riuscì a fare deportare suo cugino e suo cognato.

Kappler aveva già redatto una lista di trecentotrenta persone, trecentotrenta ebrei, ma non erano abbastanza, ne servivano almeno altri cinquanta. Decise così di convocare il questore di Roma, Caruso, che fu in grado di procurargliene “a malapena” una decina. Ma non erano abbastanza. La soluzione più ovvia fu presto presa, contattare la Pantera Nera. Celeste servì su un piatto d’argento ventisei suoi correligionari, ventisei suoi conoscenti e persino amici.
I prigionieri vennero portati presso le Fosse Ardeatine, dove a cinque a cinque, in una algida processione durata tutta la notte, vennero uccisi con un colpo alla nuca nel buio della cava.
Sui muri della cella numero 306 del terzo raggio di Regina Coeli si legge, scritto con un chiodo: “Sono Anticoli Lazzaro, detto Bucefalo, pugilatore. Si non arivedo la famija mi è colpa de quella venduta de Celeste Di Porto. Rivendicatemi”.

Celeste vendette ventisei suoi correligionari per 5mila lire “a capo”, come dirà lei stessa.
Quando i nazisti lasciarono la città, le truppe alleate erano ormai vicine; Celeste, presa dalla paura e dall’ansia, fugge da Roma per andare in un luogo in cui nessuno la potesse conoscere, un luogo in cui nessuno sapesse la sua storia. Trova rifugio a Napoli, dove sotto il falso nome di Stella Martinelli comincia a lavorare in una delle case del piacere della città. Il passato non si cancella con un colpo di gomma, non si può dimenticare. Così accadde che in una giornata di lavoro come tante altre, nell’Italia sommersa dalle macerie della guerra, due ebrei romani del ghetto giunti a Napoli videro e riconobbero Celeste, presto la denunciarono e la donna fu per questo incarcerata a Regina Coeli, dove fu interrogata e giudicata colpevole. Celeste non è più la ragazzina sognante una nuova vita che passeggia sul Lungotevere, è una donna indurita e robustamente menefreghista. Una volta scontata la pena esce dal carcere, e di lei si perde ogni traccia. Persa, come quelle vite perse, consegnate al migliore offerente.

Lazzaro Anticoli, probabilmente, non seppe mai che nella lista di Kappler non c’era il suo nome, bensì quello di Angelo Di Porto, fratello di Celeste, sostituito all’ultimo istante con il suo; forse un ultimo rigurgito di appartenenza di Celeste che, una vita per una vita, salvò il fratello.

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