Storytelling – Marrone come…

La prima volta che lo apostrofarono con riferimenti al colore della sua pelle è stato un bambino: «Sei marrone come la cacca».
Seguirono pianti e lacrime.
Qualche giorno dopo un tale lo aveva chiamato “scimmione” imitandone il verso. Ma per lui, appena arrivato dal Ruanda, era una delle tante cose nuove e incomprensibili che gli stavano capitando, come gli spaghetti o l’aria condizionata in camera.
L’estate successiva, in spiaggia, mentre giocava a pallone con altri bambini, un signore scocciato gli disse “negro di merda”. Fece finta di non sentirlo. Poi me ne parlò, ed io cercai di tranquillizzarlo dicendogli che quell’uomo era uno stupido ignorante.

Oggi, dopo quasi trent’anni e una laurea in giurisprudenza presa col massimo dei voti, fa ancora i conti con l’ignoranza e la stupidità della gente.
Un giorno la polizia stradale, insieme alla patente e al libretto della macchina, gli ha chiesto di mostrare il permesso di soggiorno. All’ufficio immigrazione della Questura, dove spesso si reca per assistere i suoi clienti, lo scambiano per un extra-comunitario in attesa di informazioni; al tribunale gli chiedono sempre di mostrare il tesserino:
«Scusa eh, ma siti tutti uguali voi nivuri» si giustifica l’usciere.

Ero in missione in Ruanda quando lo vidi per la prima volta. Stava seduto sui gradini dell’ospedale e fissava i suoi piedi impolverati. Ad appena tre anni aveva già conosciuto la follia della guerra civile. I genitori erano rimasti vittime dei massacri di Kigali. Facevano parte di quei tutsi che la radio locale definiva “scarafaggi da seviziare e uccidere”.
La decisione di adottarlo non fu semplice, mentirei se dicessi il contrario. Prima di compiere un passo del genere io e Valentina ci documentammo molto. Cercammo di capire le difficoltà che avrebbe vissuto crescendo in un contesto così diverso dal suo. Volevamo essere preparati, sicuri di potergli offrire tutto il supporto psicologico di cui avrebbe avuto bisogno.
Poi un giorno abbiamo fatto quello che chiunque altro avrebbe fatto: cercammo su internet testimonianze, consigli, storie di chi aveva già intrapreso questo percorso. Ci imbattemmo in un articolo dal titolo: “Dieci buoni motivi per volerlo bianco”.

Al primo punto sgranai gli occhi.
Perché così quando andremo in giro non apparirà subito che non è nostro.

Al terzo punto Vale si accese la seconda sigaretta. La prima fumava dimenticata sul posacenere.
Perché così i nostri genitori si potranno sentire veramente nonni compiuti e non si dovranno vergognare del nipote. E inoltre lui potrà sentirsi a suo agio quando ci ritroveremo tutti con gli zii, le zie e i cuginetti.

Al decimo punto avevamo preso la nostra decisione. Elias sarebbe entrato a far parte della nostra famiglia.
Non fu facile. L’iter per le adozioni è fatto di così tanti ostacoli burocratici che non tutti arrivano alla fine. Nel nostro caso il cammino che ha condotto Elias finalmente da noi è durato tre anni. Il tempo passava ma la risposta era sempre quella: bisogna aspettare, abbiate pazienza.
Sì, la pazienza. Credo che in quei mesi abbiamo sperimentato tutte le sfumature della pazienza: quella rassegnata e quasi arrendevole; quella ottimista e combattiva; quella disperata e avvilita. Un turbinio di stati d’animo che ci ha messo a dura prova, ma che mai ci ha fatto vacillare. In tanti ci consigliarono di abbandonare l’iter dell’adozione internazionale e di cercare in Italia nostro figlio. Non capivano che noi lo avevamo già trovato e non avevamo più bisogno di cercare. Certe sensazioni sono difficili da spiegare, e impossibili da comprendere. Come fai a spiegare alla gente che non sempre serve un legame di sangue per sentirti indissolubilmente legato a qualcuno?

Eppure, più dell’attesa infinita, più dei continui rinvii da parte dell’ente cui era stata assegnata la nostra adozione, più ancora dei viaggi interminabili dall’Italia al Ruanda, spesso rivelatisi inutili, quello che più ci ha messo in crisi è stato l’adattamento di Elias alla sua nuova vita. Tutte le volte in cui è stato vittima di atteggiamenti razzisti mi sentivo in colpa. Mi chiedevo se non fosse stato meglio trasferirmi insieme a lui in Ruanda, o in qualsiasi altro Paese in cui i diversi saremmo stati noi e non lui.
Un giorno, aveva circa dodici anni, all’ennesimo riferimento denigratorio sul colore della sua pelle, evidentemente lui capì il mio stato d’animo: «Pa’, non ci fare caso, non devi ascoltarli. Com’è che dice sempre la nonna? La mamma dei cretini è sempre incinta». Lo abbracciai e fui orgoglioso di mio figlio.

Oggi Elias si è ormai abituato agli insulti razzisti. Si è arreso all’evidenza di vivere sapendo di essere diverso. Ma sa che sarebbe diverso anche in Ruanda, perché ormai non ne parla più la lingua, non ne conosce i gesti, le tradizioni.
È un perfetto italiano in un involucro ruandese. Il colore della sua pelle, la carnosità delle sue labbra, quei riccioli crespi che ha sulla testa sono i segni delle sue origini africane, ma tutto il resto, il modo di interagire col mondo, è italiano. Non solo la lingua, ma anche il modo di pronunciare i suoni, il modo di pensare, i gusti culinari, la fede calcistica.
Eppure il fantasma ruandese è in lui e solo in lui. È forse l’unica cosa che non riusciremo mai davvero a condividere. Se avrà dei figli lo condividerà con loro, insieme al cognome italianissimo che a volte spiazza gli interlocutori, e che lo diverte non poco.

Rossi. Il mio Elias, così diverso da tutti nell’aspetto, è in realtà un banalissimo signor Rossi italiano.

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