Largo Distinti, 36

Mi chiamo Giovanni ed abito all’ottavo piano di una delle 11 palazzine da 13 piani di un noto quartiere residenziale. 286 appartamenti, tutti luminosi e ben serviti, abitati in media da tre persone: fanno, più o meno, 800 esseri umani circondati da cemento e cancelli automatici. Un piccolo ghetto di piccola e media borghesia con i suoi “Buongiorno”, “buonasera”, “come sta” di silenzi dentro gli ascensori e i “saluti alla signora”. Tutto nella norma. Per una questione di statistica, in questo nutrito formicaio di impiegati, quadri e piccoli commercianti che puzza d’umanità stantia, si nasconde una scheggia impazzita: una mente malata che scrive improperi sui muri della portineria, graffia i tasti in braille degli ascensori e strappa gli annunci per la riscossione del condominio. Un pazzo, un reietto, ammorbato dai suoi 120 mq, il portafoglio sempre pieno e l’anima in pena per la paura di non essere mai come Rossi Mauro, palazzina 4, interno 5: Suv, compagna finlandese modello “bella per sempre” e posto auto 134 a due metri dall’uscio di casa. A me, a dire la verità, la finlandese sta sul cazzo e mi piace proprio Rossi Mauro di anni 53, capello brizzolato e fisico asciutto.

Fu tra i primi che conobbi nel 1982, anno del mio arrivo nel complesso residenziale “Vega”. Quell’estate, il frinire delle cicale passava il testimone al brusio dei televisori sintonizzati in diretta dallo Stadio Santiago Bernabeu di Madrid, per esplodere, in un boato, al 53° minuto, al gol di Pablito Rossi: 1-0 e Coppa del Mondo sempre più vicina. Alla fine, ci si ritrovò tutti nella piazzetta condominiale ad abbracciarsi come ragazzini. Fu lì che Rossi Mauro palazzina 4 mi scoprì; anche se, tra di noi, se togliamo qualche weekend di passione, non si è mai andati oltre la sega. Eppure, Rossi Mauro oggi è lo specchio di una società malata e di un condominio abitato da maschere fabbricate in serie, come le targhette bordate oro sopra gli usci delle porte. Come le carezze dei figli in pubblico, perfetti, tra gli abiti firmati e i lividi nascosti; la solitudine del signor Milazzo circondato dai puttanoni della Palermo Bene, gli antidepressivi nel caffè della sorridente e radiosa Stefania Mulè, terzo piano, interno 3. Sorvolo sulla generazione successiva seduta sulla panchina del piccolo parco, in quanto dal nulla può nascere solo il vuoto assoluto. Quanto a me, abito da solo, anche se in verità condivido segretamente una figlia di tre anni con una vecchia amica che un giorno mi ha espresso il desiderio di diventare madre: una botta con il giocattolo in primavera pensando a Rossi Mauro, e via, nove mesi e tre chili di meraviglia tre giorni prima di Natale. Quando nacque Sofia avevo appena compiuto 47 anni, e tra un po’, se il sole mi aiuta, quei tratti di somiglianza non si vedranno più: avrò anche il vantaggio di potermi considerare il nonno di mia figlia senza passare per il padre naturale. Ogni tanto ci vediamo, due baci, uno sguardo diffidente, un parente lontano amico della mamma con il marito sterile. Lui, il cornuto, sa tutto, sono felici e va bene così. Niente complicazioni, non hai tempo per i bambini quando qualcuno trama alle tue spalle: qui continuano a rigare auto, bucare gomme, suonare il citofono sistematicamente alle tre e trenta della notte nei giorni dispari; non si può rimanere indifferenti, devi stanarli e fargliela pagare. E poi c’è la questione del cane del signor Venturi, piano terra, palazzina 3, vigile del fuoco, che si ostina a lasciar abbaiare notte e giorno. Li sento anche nel sonno, l’acuto impietoso ad ogni passaggio di quel gatto di merda che continua a farlo impazzire ed a cui, credo, serva un po’ più di veleno nelle polpette. Sogno spesso di sparargli sul muso impugnando la pistola d’ordinanza: il cane, un pastore tedesco, è proprio a due passi da me, e tra un’erezione e l’altra, gli pianto un bossolo proprio sul tartufo e fine del fastidio. A volte tutto ciò mi calma.
Non chiedo molto, esigo rispetto e tranquillità. So per certo che qualcuno finirà per buttarsi giù da questi palazzi grigi per la noia e per questo motivo devo evitare che ci siano altri casini. Mi bastano i giardinieri di cui non conosco neanche il nome che già alle otto del mattino potano quelle boungaville di merda che ritrovo comunque, in altra forma, sul terzo rigo del rendiconto alla voce “Cura del verde condominiale”: 148 Euro al mese a testa, neanche fosse l’Orto Botanico.
Ucciderei tutti. Forse risparmierei solo quelli della porta accanto: mi chiamano dottore e la figlia cucina bene. A volte mi offrono dolci fatti in casa e il marito rispetta le linee del posto auto, anche se a dirla tutta questo è anche merito mio: un lunotto sfondato al terzo avviso per aver parcheggiato sulla linea non si dimentica, anche se ormai è acqua passata. Adesso preferisce andare in bici, anche se gli ho fatto notare che non sta bene scampanellare dopo le 21. Insomma, mi stanno simpatici e forse li risparmio. Ma Rossi Mauro deve pagarla, mi spiace per tutti gli altri, ma oggi ci scappa il gol e stasera apro il gas.

4 thoughts on “Largo Distinti, 36

  1. una fotografia della società odierna, dove a farla da padrone è la solitudine, cela tante mine vaganti che ogni tanto escono allo scoperto, potrebbe essere un nostro vicino di casa…
    Bravo Marco!

Rispondi

Questo sito usa Akismet per ridurre lo spam. Scopri come i tuoi dati vengono elaborati.