Cronache postmoderne

Martedì 9 maggio, ore 8:30. Mi sveglio nella mia ex-casa. Ho dormito male, mi manca la mia camera da letto da neo-donna, ma il nonno ha bisogno di me. Fine del risveglio. Faccio il letto, apro l’agenda blu. Il lunedì è appena passato sul divano leggendo “Vite non vissute” per il prof. M. Lui è l’oracolo di Delfi e sarà il mio supervisore. Ho letto con un misto tra stupor, piacere e ammirazione folle per la follia di Ogden, ma la stanchezza c’è e non ho finito. L’agenda si apre quindi con un grande asterisco sul martedì. Devo scrivere il resoconto dei miei casi clinici e alle 12:15 ho A. in studio in centro, quindi alle 11 devo aver già messo il rossetto rosso matte ed aver nutrito Martino3zampe. In realtà alle 11 ho appena convinto nonno a farsi fare lo shampoo. Poi scendo, traffico, preghiera per propiziare il posteggio, pagamento di odiate strisce blu, studio. Ce l’ho fatta, sono puntuale, sto migliorando! Alle 13:45 mi ri-infilo in macchina, traffico, arrivo in clinica, mangio insalata calda sotto il pico del sole. La signora M. e il suo dolore mi aspettano alle 15, ma amo il mio lavoro e non c’è molto da aggiungere. Ore 16:45: finito anche di scrivere le cartelle e devo attaccarmi al cel. per pubblicizzare il seminario di giovedì e provare a pagare il bollo! Alle 18:00 ingresso in ospedale: aeroplanino, “Mangia, ti prego, se mi vuoi bene fallo per me!”. Alle 19:30 circa arrivo a casa e per oggi è quasi fatta: basta “solo” lavarsi le ascelle, cambiarsi e stampare i pezzi da andare a studiare per il reading con Emergency a casa di D. In moto, Lui guida ed io sto al telefono per le ultime dai medici. Arriviamo, sperimentiamo, alle 23 abbiamo finito di delirare ed io&Lui torniamo a casa, coccoliamo i piccoli, togliamo il piumone, intrecciamo le mani e, senza dire molto, speriamo di dormire bene. 

Mercoledì 10 maggio. Oggi direttamente a lavoro in clinica: dopo le solite operazioni letto-gatti-preparazione, C., B. ed Y. mi aspettano come si aspetta solo la propria psicologa. In mezzo co-visione, poi mangio in macchina l’insalata con le patate e il pollo dell’ospedale (ma che vuoi pretendere quando non fai la spesa da 1 mese?) e comunque alle 16:43 ho finito di scrivere le cartelle per la corsa all’agenzia delle entrate con Lui a sbrigare camurrie. Ne usciamo vittoriosi e come premio desidero ardentemente lavarmi i capelli e tagliarmi le unghie, e però voglio/devo anche andare in ospedale: “Mi vuoi bene? E allora mangia! Dammi un bacio, facciamo una pausa ed altri 2 cucchiai! Mi dai un pugno?!? E dammelo!!! Ecco! Ora però altri 2 cucchiai!”. A casa alle 19:30 (minuto più, minuto meno), Ogden mi segue come un’ombra, ma la forza è quella di mangiare una carbonara alla romana come solo Lui la sa fare e poi di leggere tre pagine a letto tra un gatto e l’altro, tra una melatonina e l’altra per lasciarsi dormire, ed anche per oggi alla fine chiudi gli occhi e, appunto, fine.

Giovedì 11 maggio. Era il compleanno di mamma. 67. Ci penso, ma pensare fa anche male e allora lavoro, anche per lei: gatti da sfamare, casa da ordinare mentre mi accerto che nonno vada in terapia, magari cucino io (per forza adesso se stasera vogliamo mangiare qualcosa di buono!), poi mi chiudo tra le mie pareti rosse per preparare le domande per il seminario, ché oggi finalmente è il giorno. Quindi preparo zucchero, palettine, block notes, vestiti. Mail-mementor di rito ai relatori, chiamatina al dottor B. che odia il mondo virtuale, trucco e parrucco (oggi la doccia riesco a farmela!), qualche bacio a Lui che intanto mi supporta, un panino con porchetta&cipolla per strada che mi farà compagnia per tutto il pomeriggio e alle 14:20 sono già in Fonderia: tutto a posto? Caffè ok? Attestati? Fogli mail e presenze? L’audio com’è? “Pronto prova, mi senti?”. “Relatori benvenuti e grazie mille!” ed eccoci alle 15:00 ad accogliere con i migliori sorrisi coloro che, pur non conoscendoli, sono venuti ad apprezzare i nostri sforzi. Fa caldo, la sala è piena – soddisfazione! -, apprendo che non dovrei amare le Fonzies e che morirò mangiandole. Fila tutto liscio: alle 19:00 siamo a pezzi (ma pezzi felici); finiamo, salutiamo, facciamo rete. Ormai è troppo tardi per l’ospedale, ma non per il senso di colpa; chiamo: “Ciao monella, hai mangiato? Stai facendo la brava? Io ho lavorato, ma mi manchi!”; “Ciao parenti, novità? Che dicono i medici? Blablabla”. A casa ci arrivo amando la moto che sguscia sul traffico, ingurgito la pasta col ragout bianco della mattina, i piatti magari li faccio io, che li fa Lui da 3 giorni. Dopo, altre sei pagine di Ogden e nel mentre abbraccio Lui da un fianco e mi costringo a crollare.

Venerdì 12 maggio. Ultima chiamata per finire Ogden e per pulire il bagno che sta per urlarmi contro. Magari anche la cucina, il cui pavimento disconosce al momento il colore del pavimento. Per fortuna i gatti sono esseri clementi. Meno fortuna è avere anche i loro peli, oltre alla loro clemenza. In ogni caso, alle 12:30 sono ospedale: “Bella! Sei bella!!! E però mangia che il dottore così ti fa uscire presto! Presto, sì, te lo prometto! Esci presto, però ora mangia! Mi vuoi sputare? E sputa, tanto io te lo ridò!!!” (pernacchiona di sfida). Ore 14:00: a scuola. Menomale che esiste la scuola, luogo per pensare, per fermare e per fermarsi… fino alle 19:15 circa. Poi di nuovo in macchina. Lui è giù, ed è un amore e se lo merita: “Prendiamo un po’ d’aria, andiamo ad Déjà-vu! …Sì, sono stanca, poi devo studiare, ma ne hai bisogno, andiamo, magari una oretta…”. Sorseggiare un bicchiere fingendo per Lui di ignorare, una volta ogni tanto, un cellulare che ti dice che lei ha di nuovo la febbre e che neanche domani uscirà da quella maledetta Astanteria che l’ha salvata. E per intanto devi essere forte perché eri lì per Lui; e devi nascondere le occhiaie anche perché hai le ultime ore di Ogden e ci tieni davvero: ti sta piacendo, ti dà delle risposte e vale la pena fare l’1:30 di notte leggendo con la faccia invece che con gli occhi: vale la pena, vale la pena, vale la pena…… vale la pena.

Sabato 13 maggio. Lui si sveglia alle 7:00, io ho ancora un’ora; mi impegno a volermi bene restando a letto, “Emina ha tanto sonno amore…”. Intorno alle 8:00 spengo 3 sveglie, arrivo tardi a scuola, chiedo venia e provo a rendere onore ad Ogden mentre sperimento ancora e ancora che il gruppo è uno strumento meraviglioso. Il cellulare invece è frutto della merda e mi ricorda sempre per mezzo di altri quanto io sia “non abbastanza”: per gli altri, sì; per quelli che vivono intrecciati alle loro continue pretese, ai loro continui giudizi. Il mio cellulare alle 11 era un inferno meraviglioso fatto di altri che devi comprendere per deformazione professionale o familiare, anche quando comprendere significa calare la testa alla patologia. Così mi dissocio, mi si offusca il cervello di nervosismo e “Keep calm” un cazzo: mi arrabbio e non era mai successo a scuola! La scuola è sacra! E allora respiro, mi impunto e dopo una mezz’ora infinita mi riconcentro. Alle 14 però si vola in ospedale per il solito aeroplanino di cibo alternato a balletti, a carezze morbide, a pomatine sui lividi e a cure d’amore. Sono stanca, la giornata è ancora lunga, ma non posso farne a meno, come lei non lo ha fatto con me. Alle 15 finalmente sono a casa. C’è Lui. Lo bacio, apro due mozzarelle e gli chiedo scusa: devo studiare 10 minuti per il gruppo sul G.A.P., farmi la doccia per tornare una donna credibile, poi scendere ché al solito per arrivare in studio ci vuole un’ora e l’appuntamento con C. è alle 17. Per strada, mi fermo a comprare la carta igienica. Alle 20 ho finito, ma anche Lui ha le sue ed ha bisogno di me e di una birra leggera. Tre quarti d’ora di traffico per mezz’ora di svago: in fondo è sabato e so che Lui ne ha bisogno. Infine, dulcis in fundo, tornano gli altri: gli altri, senza confini, con le loro continue richieste, con i loro continui giudizi: sempre loro. Gli altri, in grado di farmi piangere e urlare mentre Lui, per fortuna, mi stringe di camomilla e mi dice che domani, finalmente, è domenica.

Domenica 14 maggio. Festa della mamma. L’importanza pressante di pulire magari magari il resto della casa e di fare una lavatrice al mese mi evita di mettere sveglie. Preparo il pranzo alle 11, sudo tra uno straccio e l’altro; nelle pause metto annunci per trovare badanti con umanissimi “requisiti da fata turchina”, alle 13 sono da lei con un mazzo di fiori “per imboccarla meglio, bambina mia!”, alle 15 si mangia il Santo pranzo che definisce quel Santo di Lui, di pomeriggio rispondo alle mail, ai wathsapp e agli sms classici e a quelli su facebook, lavoro per Abattoir e per le solite cose arretrate, ma anche per tenermi stretta la forza di stare con loro tre. Queste prossime due sere faccio la nomade: dormo con nonno e loro mi mancheranno. Sono un po’ giù… senz’altro da aggiungere.

Lunedì 15 maggio: è di nuovo lunedì. Di nuovo, mi sveglio in un ex-letto. La fatica per andar via da lì, i sensi di colpa, la gioia di abituarsi a nuove pareti tutte mie. Sento tutto lontano. La voce di mio padre dice che devo farmi gli esami del sangue e me li regala in contanti: strano, ma vero. Ho le occhiaie e molti capelli li lascio in quell’ex-lavandino. La giornata è sempre lunghissima: sono una libera professionista, devo investire su di me, promuovermi, sbattermi, fare rete, imparare e donare. Devo farlo ora, soprattutto perché sono vecchia, perché tra 7 giorni sono 34. Anzi no: soprattutto perché lo desidero, perché è importante per me. E lo faccio: lavoro per me. Ma alle 11 devo scendere con nonno. Dobbiamo fare la spesa per lui e per Martino3zampe. Alle 13 compriamo il pranzo per strada e corriamo perché nonna ci aspetta in ospedale; lei sorride piano, felice di vederci, meno di sapere che la farò mangiare anche oggi perché ci manca e voglio che torni a casa con noi. Nonno piange ed io lo abbraccio. Vorrei piangere anch’io e lo faccio anche se non c’è tempo… devo correre dai miei 2 piccoli che sono soli da 24 ore, correre prima che rompano qualcos’altro per la smania di essere soli; devo carezzarli, sciacquarmi il sudore e il sale di dosso, farli mangiare, entrare la biancheria. Alle 16 devo essere di nuovo in via Tiziano e alle 19 in centro per una riunione e mi fanno male le gambe e ho la nausea; e allora mi chiedo come farò, ma so che lo farò.

…E’ solo una settimana; una delle tante dell’annus domini 2017, anno della sacra schizo-era postmoderna in cui, per campare restando umano, vivi da disumano. …Ma no! Non esageriamo con facili allarmismi. E’ solo una settimana! La prossima sarà quasi uguale, ma andrà… meglio?

6 thoughts on “Cronache postmoderne

  1. Forza Emi!!! Sono certa che tu possa farcela, l’ho sempre pensato (e ammirato) da quando ti conosco. Però non dimenticarti mai di te, è l’unico modo per dare agli altri senza​ sentirsi derubati. Ti mando un mega abbraccio :-)

  2. Ma come fai? Credo che se unissimo le nostre energie potremmo alimentare un intera città. Magari non una città grande, una che ha adottato misure sul risparmio energetico…

    La necessità ci fa fare cose che non sapevamo di poter fare. Il caos, Emi. Il Caos.

  3. Care donne, grazie dei pensieri e degli spunti (Cris :P )… Penserò a entrambi i livelli, ad esempio oggi ho prenotato delle visite e sto rallentando varie per prendermi cura di me. E che il bagno urli a matula!!! E’ che purtroppo per ora ed in questa era (sono convinta che il problema sia, oltre che mio, anche antropo-capitalistico) una giornata simile, con la mattina più lentalibera, è solo una eccezione… Migliorerà! Ma intanto, Cristina, se riesci a individuare quella città…!

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