Romanian Trip #4 – Viscri

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Viscri è il luogo del tempo e del non tempo, il luogo del rendersi conto di come abbiamo reso “scognita” certa vita.
Viscri è un piccolo paesino sassone (la Transilvania è stata colonizzata dai Sassoni, in qualche suo pezzetto) smarrito in mezzo al mezzo del verde. Ci arriviamo da Sighisoara, un altro luogo dei sogni, circondato da fortificazioni che cingono casette pastello stupende. Stupende! Piene di cura, di piante, di storie sempre color pastello e di grappe contro il freddo, di super-torte a prezzi incredibili e di bastioni resi dolci dall’armonia del tutto. Queste città, per altro, sono a misura d’uomo, quindi te le giri in un giorno e con calma, gustandoti pure i cimiteri (che stanno dentro il centro!) e il senso di certe cose. Già Sighisoara-centro è il paesino di Heidi e del Mulino Bianco insieme. Ma Viscri per la Lonely Planet è patrimonio UE e la meta delle mete del tour della Transilvania. Così saltiamo in macchina, percorriamo un po’ di statale, giriamo a destra, attraversiamo un campo rom, poi tanta strada sterrata. Chilometri di strada sterrata senza indicazioni nel nulla; solo strada e attorno verde, colline, cavalli distesi che si leccano le zampe, greggi e controgreggi e, a lato del loro bianco, il pastore senza denti coricato a terra col collega che mangia sorridendo un pezzo di pane. I carrettini ci passano accanto diverse volte con sopra il fieno-bene-comune. E’ tutto già poeticamente bello, poi arriviamo.
Viscri è questa: strade acciottolate, casette di tutti i tipi, dalle più modeste a quelle teutoniche, più grandi e benestanti, ma tutte spioventi e pastellate; in mezzo dicono che ci sia pure una delle case del principe Carlo d’Inghilterra. Viscri è questa, dicevo: oche bianche, oche grigie e fagiani liberi che ti guardano e ti seguono circospetti fino alla prima curva; poi altre galline che razzolano, bambini in bicicletta, cani, tacchini. C’è anche qualche mucca a lato della strada. Sugli steccati sono appese robe ricamate in vendita e sotto la fortezza una nonnina cuce davanti a tutti, con tutto il suo ben di Dio di ricami in esposizione. E’ un luogo turistico di quelli fuori dagli itinerari perché senza macchina lì non puoi arrivarci e così c’è la pace: di turisti in 3 ore ne incontriamo 10 al massimo. Negozi zero. Bar 1, chiuso. E c’è silenzio. Un silenzio pienissimo; ché già sarebbe bello così, ma scostiamo un cancello di legno e iniziamo a salire tra gli alberi. A un certo punto “Uao!”: mi scappa questa esclamazione di fronte ad un bastione per metà di legno caldo e scuro e per metà bianco candido. Una turista “tedescheggiante” mi scoppia a ridere in faccia e fa di sì con la testa. Da lì non ho smesso di stupirmi per un paio d’ore: nelle foto avevo proprio la faccia aperta da stupore-riflessionecatatonica-splendore. Non parlo, ovviamente, di quello splendore sovrastrutturale tipo “Duomo di Monreale”, ma di quello della semplicità, di tutta la potenza bianchissima e verdissima della semplicità che ti colpisce il cervello come un insight devastante che non ti aspettavi. Entro dentro la fortezza, la chiesetta è il centro di tutto, con un grande lampadario… a candele! Ci sono torri e sotto-bastoni con vecchi carretti, tocchiamo e odoriamo il legno, salvo ritrovarci sulla testa un pezzo di lardo unticcio; così scopriamo le storie più impensabili per noi siculi estranei al freddo, tipo che il lardo, in quanto bene prezioso, veniva custodito nella torre del castello perché, in assenza di frigoriferi, solo lì poteva salvarsi dal freddo atrox ed essere distribuito, ogni domenica, alla comunità. Sulla torre più alta ci arriviamo dopo scale, scalette e scalini, alcuni in pietra, altri in legno scuro. Immagino per un secondo come se li saranno fatti di corsa i cavalieri teutonici con le armature di 2 quintali (io sarei caduta subito a faccia a terra). Di lì a chiedersi quanti piedi abbiano solcato quelle assi di legno passa poco. Stiamo lassù per mezz’ora io e Anto, in un silenzio religioso a tratti. E’ il luogo del tempo e del non tempo, dicevo. Così noi ci muoviamo lenti, tocchiamo i legnami di supporto e quelli di decoro, odoriamo dove lo sguardo non basta. Anto si siede e dice che questa è la vita. Io non lo so se è così, certo è che mi fa un certo effetto la voce urlante del pastore che, dall’alto, si affanna nel suo cortile col nipotino avvolto nel giubbottino rosso; urla, capisco in un attimo, perché altrimenti i campanacci e i muggiti-belati-etc. degli animali non gli permetterebbero di essere sentito. Contemporaneamente, dall’altro lato della torre arriva un fischio lontano, mi giro e ci sono 3 persone che tornano, 3 puntini con le gambe che avanzano nel verde del tutto. Io e Anto ci guardiamo: “è il tramonto”, diciamo, come se avessimo sempre saputo che quei 3 non potevano che tornare a casa a quell’ora.

Ecco. In questo forse c’è tutto: Viscri è il luogo dell’istantaneità semplice, delle intuizioni che arrivano fluide, come se questa fosse sempre stata la nostra natura, appollaiata su una torre a guardare il tutto o il niente che abbiamo intorno. Eppure per noi è la prima volta. E’ la prima volta che vediamo questo mondo.

Quanto questo sia una bugia o no resta ancora una domanda dentro la mia testa.
Però voglio dire un’ultima cosa: lo stesso vale per quel cortile di casa in cui vedemmo la gente che picchiava qualcosa con dei bastoni. E lì giù di fantasie animaliste di ogni tipo, e loro invece facevano solo il pane, prima cotto nel carbone, poi battuto ed infine lucidato fino ad assumere il colore paglierino del pane! Forme ovali da, boh, quasi 3 chili di pane! Decisamente, noi mangiatori di pane quel pane non lo avevamo mai visto. Mai! E neanche la gente pudica per la mia foto che mi salutava sorridendo fino a mezz’ora dopo da dietro le finestrelle.

Lascio a voi il resto, ma ringrazio la Romania che, in un qualche magico modo, resta in questi giorni grigi il mio pensiero libero; desiderante; e felice.

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