Come ti è saltato in mente, cara dottoressa?

“Come ti è saltato in mente? […] In tempi di scorciatoie, di psicoterapie prêt-à-poter o usa-e-getta, di personal coach o trainer digitali o via fax, che non sai se sia più virtuale il terapeuta o il paziente (probabilmente lo sono alla pari), di video o cyber-guru, di Guide Autorizzate per Escursioni sui Carboni Ardenti, hai preferito – o almeno così mi piace supporre – imboccare la via maestra della Psicologia Dinamica.” (A. Carotenuto)

E’ sempre più difficile. Il Natale è difficile, il pensiero della famiglia, di come vorrebbe o dovrebbe essere, dei guai. Vorrei scrivere di niente o di tutto, in definitiva non so su cosa. Non credo di soffrire di workaholism, ma ultimamente il lavoro è l’unica certezza. L’unica fonte di sorrisi spassionati. Ovviamente mi riferisco a loro: ai miei pazienti. Dalla prima che ho visto ad oggi saranno stati almeno 15, senza contare i gruppi di discussione e il prossimo gruppo terapeutico di giocatori d’azzardo che partirà l’8 gennaio e di cui ho già conosciuto i componenti con Cristina. I miei pazienti io li penso. Penso ai visi distorti dai sorrisi tra un passaggio e l’altro o davanti alla porta prima di un saluto o di un momento importante; oggi uno di loro mi ha fatto il baciamano ed è stato un atto di un affetto grandissimo nella sua semplicità. Sui saluti io stringo sempre la mano forte, ma non faccio male. La avvolgo forse, spesso con entrambe le mie mani, come per dire anche con quella piccola parte di corpo che io ci sono. Così: in un modo non complicato, diretto e caloroso. Penso pure ai loro visi arrossati dalle emozioni, dai ritardi e dalle paure. Alle lacrime. Mi colpiscono tutte o quasi. Le persone che non abitano le stanze di terapia non sanno quanto si è fortunati a piangere con una persona che considera le tue lacrime un dono, che le vede e le ascolta, che non ti fa fretta per smettere.

La salute sta anche in una lacrima, nella possibilità di accedere a questa e ad una serie di tutti e tanti gradi di libertà… per abbracciare i quali si ha spesso bisogno di un’autorizzazione. Autorizzazione a esistere, a guardarsi per quello che si è, anche nelle proprie parti sporche, appestate e appestanti, cattive, maligne, vergognose. Forse non è poi così centrale quello che appare fuori dalle stanze d’analisi. Quello che è centrale lo scopri lì… Semmai, la questione è portarlo fuori. Ma quanto dolore! E quanto amore! Spesso non corrisposto o rabbioso, dipendente o vittimista, cattivo. C’è l’universo creato dentro una persona. Ed io mi sento fortunata ogni volta: ad ogni ferita/feritoia e nuova visuale che si apre, sempre splendida in qualche modo, anche se pesantissima o fastidiosissima.
Non lo so spiegare razionalmente, ma io li penso e sono grata a ognuno di loro e ad ogni parte di sé che mi presentano. E poi loro mi vedono come mi sono sempre sentita: sensata nell’essere-con-l’altro, o meglio: in quello che si crea insieme. (La frase di Sartre ormai me la porto ovunque: “noi siamo / ciò che facciamo / di ciò che gli altri hanno fatto di noi”.)

Lungo questi accidentati tragitti, non mancano mai le crisi e le paure. Ad affrontarle, c’è la pazienza: quella dei pazienti e la mia, che non mi sottraggo al lavoro nonostante la solitudine e la fisiologica frustrazione di non avere tutto chiaro; è la pazienza dei tempi necessari per comprendere e curare i limiti che ci costituiscono, poiché ciò significa proteggere il lavoro che si fa e assumercene per bene la responsabilità. E poi, ci sono le parole di tutti quei mentori che mi hanno rimandato come la crisi spesso stia anche nel rendersi conto di noi stessi, del nostro movimento, di stare pensando l’impensato; e che questo, a volte, è talmente forte da far perdere l’equilibrio. In particolare esporsi (perché in questo lavoro, inevitabilmente e in un modo al contempo particulare, ti esponi tutta e con tutta te stessa!), mettere meno distanza dal bambino sofferente che è il paziente, scoprire le emozioni condivise, lasciarmi abitare dalla sua sofferenza (e a volte portarmela a casa per il troppo sentire)… Beh, non è facile. E spesso significa imparare ad amare le piante grasse non evitando le spine. Ma soprattutto significa mettersi in gioco col paziente e farlo coi miei vestiti: quelli fatti delle mie orecchie, delle mie pance, dei miei occhi, della mia voce e di queste mie mani fallibili che scrivono. La “meraviglia” del nostro lavoro sta proprio in questo: nel fatto che si lavora insieme, e non ci si può tirare indietro.
Mi hanno incoraggiato in questo le parole di Bion e di Ogden, che ho tanto amato: “Diventare un analista implica necessariamente la creazione di un’identità altamente personale”: “L’analista che diventi sei tu e soltanto tu: bisogna avere rispetto per l’unicità della propria personalità – è questa che usiamo”. E poi Yalom: Vi esorto a far sì che i vostri pazienti diventino importanti per voi, che entrino nella vostra mente, vi influenzino, vi cambino”. E’ proprio così caro Irvin, guida spirituale che mai conoscerò in carne e ossa. Mi sa che hai ragione su molte cose che mi hai insegnato quest’estate tra le pagine. L’intreccio mio e dell’altro che si va facendo e tessendo, la mia crescita impagabile insieme alla loro, un uovo nutrientissimo che ad ogni incontro si va schiudendo. Una gratitudine enorme e pulcini fragili ma giallo-sole che potrebbero nascere. La speranza che cura. …Così non posso non rispondere “ma grazie a lei!” ogni volta che mi ringraziano. E non può che essere così.

“Buon Natale, cara dottoressa!”.
Già: Buon Natale, Emi.

[…] Ma il cammino per fare questo è lungo e, sicuramente, faticoso. Come disse Edison, per poter essere veramente creativi c’è bisogno dell’uno per cento di talento e del novanta per cento di sudore. Credo che dobbiamo tutti sudare, aver sudato e continuare a sudare, perché poi si possano raggiungere veramente dei vertici artistici creativi che ripaghino di tutta la fatica che è stata fatta nei decenni.” (A. Ferro)

4 thoughts on “Come ti è saltato in mente, cara dottoressa?

  1. Ti è saltato in mente il lavoro piú belli, duro, viscerale che esiste e ti calza a pennello, non potevi che essere ( si, essere, non fare!) questo.
    :*

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