L’irrefrenabile voglia di lasciare il segno #4

Verona, Casa di Giulietta. Era il 21 gennaio, e ci penso ancora.
Le prime scritte di benvenuto sul cartello anticipano cosa ci sarà da vedere dentro il patio del palazzo dei cosiddetti Capuleti. Ne avevamo già parlato qui, ma neanche io ho potuto resistere notando che, entrando in loco e passo dopo passo, la mia attenzione NON è stata attirata dal famoso balcone del Oh Romeo, Romeo”, ma dalle infinite e sovrapposte scritte che campeggiano ovunque. Il che sa molto di oltraggio alla corte: altro che Rinnega tuo padre, e rifiuta il tuo nome!”. In pochi metri quadrati c’erano così tante scritte sui pannelli posti a protezione delle antiche mura, sui pali, sui cartelli, sui portoni e sull’ovunque da far impallidire il balcone di Giulietta e l’amore romantico tutto. Lui, bianchiccio e banale in mezzo all’omologazione della sua dimostrazione.

Ancora non avevo visto tutto e vi dirò che i catenaccini amorosi potevo anche aspettarmeli e le foto davanti ai murales di scritte piuttosto che col famigerato balconcino anche. Ma i cerotti no. Cerotti! Non so se al suono di questa parola vi viene in mente la colletta appiccicaticcia che appizza il cerottino alla nostra umana pelle e lo schifino nero che vi si crea fisiologicamente attorno. Alla parola “cerotto”, non pensate anche voi al sangue raggrumatino nella parte bianca centrale deputata a proteggere le nostre feritine? Perché i cerotti servono a questo! …Ma c’è che l’umano intelletto è superiore e suberbo semper! Dunque ecco cosa si è inventato: i cerotti da muro! Poiché, ipotizzo, se non hai più angoli in cui scrivere il tuo amato nome (ovviamente circonciso da un cuoricino e inanellato al suo), puoi sempre usare un cerottino! Lo incolli sulle scritte altrui et voilà: ci scrivi sopra tuuuuuto ciò che vuoi così sei salvo.

Dove sia finita l’arte in tutto ciò non si sa davvero. Ma che importa… l’arte è l’umano, con le sue debolezze incerottate e le sue pratiche attuppa-assenze; un po’ la stessa moda dei phon lasciati accesi per sentire il rumore del pieno e non del nulla.
Eppure ci penso ancora. Questa cosa, capirete, mi ha turbato. Queste sono le situazioni che risvegliano il mio senso clinico e che mi fanno desiderare di poter/saper fare una “psicoterapia di comunità”.

“Che cosa c’è in un nome? Ciò che noi chiamiamo con il nome di rosa, anche se lo chiamassimo con un altro nome, serberebbe pur sempre lo stesso dolce profumo” (Giulietta: atto II, scena II). Non a caso Romeo pare si chiamasse in realtà “Cagnolo”! …Ma oggi no! Non è sufficiente che esista il dolce profumo della rosa e non è neanche sufficiente chiamarsi Rosa, Rosa Spina o Pina. L’importante è proprio il nome, ma soprattutto scriverlo e ovunque!!! Perché “Che cosa c’è in un nome?”. Forse tutto, dovremmo dedurre. E perché? Forse perché l’intorno non ci garantisce e le nostre flebili identità sono fragili e scritte-visibili-&-incerottate dipendenti.

Su questa penso all’anomia di Durkheim. L’anomia è l’assenza di norme sociali chiare e condivise, una deficienza nella capacità della società di vincolare a sé i suoi membri, di garantirne l’adesione al medesimo ordine di valori/credenze/aspettative. L’anomia crea disorientamento nel singolo e facilità alla trasgressione delle norme sociali. Qualche anno dopo, siccome era leggerino, Merton condisce ulteriormente il concetto per indicare una situazione in cui vi è una disgiunzione tra gli scopi dell’esistenza che la cultura propone e le possibilità concrete di raggiungerli attraverso comportamenti normali: quando la società prevede barriere tali da non poter raggiungere in modo lecito i propri scopi con i mezzi ritenuti “normali”, essi vengono perseguiti in modi non leciti e spesso devianti. Come a dire che se la società ci frammenta, macina le famiglie (o al massimo empowerizza i picciriddi), si mastica le identità con l’impossibilità di avere una buona autostima, un buon lavoro, un buon futuro ed una buona pensione… Non ci resta che incerottare il nostro nome sotto il balcone dell’amore e sperare che l’amuleto di vocali, plastica e consonanti incollate funzioni. Agneddu e sucu…

P.S.: La cura “di comunità” [n.d.r.] proposta da Durkheim per l’anomia delle società complesse sta(va) nel “corporativismo” e nel potenziamento dei processi educativi che consentirebbero lo sviluppo condiviso di un sistema morale.

5 thoughts on “L’irrefrenabile voglia di lasciare il segno #4

  1. Davvero incredibile come riusciamo a deturpare muri, monumenti, cancelli e perfino piante per incidere il nostro nome e soddisfare il nostro ego, la nostra voglia di lasciare il segno, di dire “io esisto”, “io sono stato qui”, ma soprattutto “io sono esistito”.
    La citazione della rosa è stupenda, azzeccatissima!

  2. ci sono stato anni fa. Di Verona ho apprezzato di più le piazze, il belvedere, le viuzze, i ponti. La casa di Giulietta è romantica come il turno all’ufficio delle Entrate.

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