Ricordo di Anna

Erano giorni in cui, a dodici anni, ci si annusava come randagi al sole: bastava un sorriso, uno schiaffo o uno sputo per formare un nuovo branco in quella parte del quartiere nuovo e immacolato di periferia, ancora tutto da spartire.
Noi eravamo quelli dell’11, anche se da quella parte non ci entrava mai nessuno.
In totale, ogni complesso misurava all’incirca 158 metri di lunghezza per 50 di larghezza: sei piani nei punti più alti e tre per il resto degli edifici; tra l’altro, queste misure non le troverete da nessuna parte, in quanto fanno parte di quelle cose che appartengono solo ai ragazzini con le scarpe numero 38, i baffi della Nike al contrario e i capelli a scodella; è probabile quindi che siano sovrastimati, come quei grandi sogni che fai, appunto, a dodici anni, e a cui ti aggrappi per non lasciarti cadere nel vuoto.
Le colate di cemento giallo portavano i nostri nomi, luoghi in cui un po’ tutti, per appartenenza o pregiudizio, ricordavano Rosso Malpelo.
Non c’erano strade, e per una piccolissima parte della nostra vita, quella porzione di quartiere appartenne solo alle nostre voci. Le sentivi riecheggiare fino a tarda sera, giocando a nascondino con la luna, e anche se eravamo soltanto dieci, nella memoria di ogni quarantenne cresciuto in strada le voci erano più di cento: un suono simile al canto delle rondini, ai sogni; un inno alla giovinezza, a gambe veloci e fiati lunghi, magliette sudate, strappate; terra, polvere, palloni divisi a metà.

Anna restava a guardare dalla finestra del terzo piano: vedevo gli alberi appena piantati, e poi, poco più in su, il suo viso e i capelli muoversi come lenzuola stese al sole: vele di navi pronte a partire, cariche di speranza. Non diceva mai niente Anna, restava lì e ci guardava, al pomeriggio giocando a pallone, braccia conserte e sguardo lontano.

Mentre giocavo, quello sguardo mi rimaneva incollato, costrigendomi a fermarmi di botto, nel bel mezzo dell’azione. Lei rideva, salutava con un cenno, continuando a perseguitarmi di notte, tra le lenzuola: con il viso martoriato dall’acne, tra gli affanni della prima pubertà: tutto sommato già grandi, ma pur sempre bambini.
Anna: l’ultima immagine prima di chiudere gli occhi, il fumo nella tosse della prima sigaretta.

Quando gli alberi coprirono i primi piani delle abitazioni, la finestra di Anna si vedeva a malapena: ogni tanto, in sella alla bici, buttavo lo sguardo alla finestra, ripensando a lei, a quei giorni dall’aria fresca di tramonto, di domande senza risposte, pensieri, partite giocate sotto i suoi occhi con le maglie sudate. In giro si diceva che avesse problemi a casa o tentato addirittura il suicidio, ma doveva trattarsi di cattiverie di periferia: gente che non si fa i cazzi suoi, qualche invidiosa, gente ignorante.

La rividi un sabato al centro, in un locale di merda, in mezzo alla gente che ballava: alzai la mano e sorrise. Mi avvicinai, e mentre continuavo a fissarla, nuotando nei suoi occhi profondi come il mare, come una poesia, una canzone di Dalla, ci baciammo ritrovando ciò che avevo perso e da sempre desiderato.

Auguri Lucio,

Marco

Photo credit Eric Perrone 

4 thoughts on “Ricordo di Anna

  1. Che bel racconto! Tutto il sapore della vita di periferia e ragazzini cresciuti per strada che in parte ho vissuto.

Rispondi a AndreaAnnulla risposta

Questo sito usa Akismet per ridurre lo spam. Scopri come i tuoi dati vengono elaborati.