Maledetto senso del dovere!

Ho avuto la febbre. Una febbre scema, il termometro non ha esagerato, non è andato oltre i 37 gradi ma per una la cui temperatura corporea abituale si aggira sotto i 36 gradi, quei 37 sono bastardi.  La mattina ho lavorato, servizi turistici e walking tour sotto il sole (finalmente!). Meno male che ci sono i walking tour, dicevo, almeno mi mantengo in forma (rotondeggiante, certo, ma sempre forma). Nel pomeriggio raggiungo le colleghe al baretto, loro erano lì dalle tre a bere cerveza – e sono rimaste, poi, a bere fino alle dieci di sera – non so come facciano, hanno una resistenza all’alcol invidiabile. Io comincio alle cinque e mezzo e vado easy con tinto de verano (vino rosso leggero annacquato con bibita gassata al limone). Decidiamo di spostarci e andare a fare un tour dei baretti: ci fermiamo al Salvador, la Mecca di ogni bevitore di birra. Ho sentito un ragazzo lamentarsi per il prezzo della caña (un bicchiere di birra alla spina) “Un euro e 30 centesimi! Ma stiamo scherzando? A che livelli siamo arrivati?”. E io pensavo alle nostre birre alla spina a 3€, o 2 euro e 50, se non sei in un bar di lusso. Certo, la qualità fa la differenza, ma tanto ormai sono tutte sotto il super mega marchio dell’Heineken™. Localizzazione del prodotto e adeguamento di prezzo. Verso le otto di sera comincio a sentire una sensazione di disagio. Sarà il vino-merda-de verano o le patatine untuose dentro il sacchetto di plastica? Mi scappa un “ah, la vecchiaia, sono già stanca!” e le mie colleghe mi guardano come per dire “ma quanti anni hai, Matusalemme de noantri?”. Mi appoggio al tavolino alto – rigorosamente senza sgabelli – a peso morto: il tavolino mi sorresse, fisicamente e spiritualmente parlando. Era troppo! Ero stanca e nauseata. Nauseata soprattutto da me stessa: com’è possibile che non riesca più a reggere uno stile di vita fatto di drink, chiacchiere, patatine untuose e tavolini senza sedie? Sono davvero così invecchiata? O le ore spese a guardare serie tv sul divano mi hanno trasformata in pantofolaia cronica? Naa, come un mantra continuavo a ripetermi che a me piace il sole, il cielo e le passeggiate all’aria aperta, che non sono vecchia, che ognuno si diverte come crede. Il senso di nausea, però, non accennava a diminuire, per cui saluto il gruppo di amici e verso le nove decido che: “Cristina, per te la serata finisce qui”. Strada di ritorno verso casa, per fortuna a Siviglia si va a piedi ovunque. Passo dopo passo comincio ad avvertire dolori sparsi in tutto il corpo e penso “mannaggia alla sciatica!”. Ma erano anche dolori al collo, alle spalle, alle braccia. Lo avevo capito: avevo intuito che qualcosa non andava già dal dolore provocato alle tempie da ogni mio movimento oculare. Eccallà, ora mi viene la febbrA. E penso a “dottore chiami un dottore”! Battute da comici, un corno! Devo prima passare al supermercato ché mi sono finiti i cereali. Supermercato affollato alle 9 di sera, maledetti andalusi! Caldo e fila alle casse. Tre piani di scale. Casa. Cappotto, sciarpa, vestiti, pigiama, divano. E crollo. Per fortuna il coinquilino mi assiste procurandomi cibo ma ho le allucinazioni guardando su Netflix quel gran figo di Charlie Cox fare a scazzottate col costume da Daredevil. Mi addormento e lui ride e mi dice “compi, vete a la cama!”. Combatti e seppellisci il fantasma della febbre tra le lenzuola. Una notte di lotte. Coperta sì, coperta no, come in una canzone degli Eelst. Mi giro e mi rigiro come un döner kebab. La testa pulsa, scoppia. Cambio più volte il lato del cuscino per cercare refrigerio. Credo che la febbre abbia raggiunto il picco più alto verso le sei del mattino ma non lo sapremo mai perché non ho avuto minimamente la forza di allungare il braccio per cercare il termometro. Alle 9 mi sveglio definitivamente a causa della mia vescica che reclamava la tazza. Temperatura a 36 gradi. Mi sento come se mi avesse investito un’auto (e una volta è successo, eh). Dovevo lavorare, ho mandato un messaggio di 2 parole alla capoturno di turno – pessimo gioco di parole, lo so. Ok, don’t worry, mi risponde. Io straniera, lei straniera, in terre ispaniche. Passo tutto il giorno sul divano tra aspirine, cibo, coperte e rimbombi letali ai lobi frontale e occipitale. ‘Ste medicine mi stanno fottendo lo stomaco peggio del tinto de verano! Riesco comunque a superare la giornata fumando solo due sigarette e non facendomi la doccia. All’una di notte decido che è arrivato il momento di traslocare dal divano a la cama, ché domani si torna a lavoro. Sicuramente la nottata è stata meno disturbata della precedente ma mi sveglio comunque con la testa on fire. Mi sveglio anche in anticipo sulla sveglia. Caffellatte e cereali per tentare di risollevare la situazione. Ma niente, continuo a stare di merda. E lo stomaco non mi assiste. Il mio forte senso del dovere mi spinge a spicciarmi, ché mica abbiamo tutta la mattina per fare colazione, lavarci e vestirci! Però i rimbombi nella mia testa non mi fanno seguire il filo logico dei miei ragionamenti. E la mia mano, guidata dal diavoletto sulla spalla sinistra, scrive un messaggio alla capoturno: “Still ko, I’m sorry…I’m so sorry” (come Tennant in Doctor Who).

Sono sul divano, alle 11 di un sabato mattina, i rimbombi al cervello stanno scemando, lo stomaco è ancora ridotto a cenere ma ciò che mi sta uccidendo, più del mal di testa, più del bruciore all’esofago, più del senso di nausea, è il mio senso di colpa. Due giorni di assenza dal lavoro. Maledetto senso del dovere! Che mi fa star male per stare male, mi fa sentire in colpa se non adempio al mio ruolo da schiavo del capitalismo. Vorrei avere delle botte d’anarchia ogni tanto, non essere ligia al dovere. Io sono quella che si preoccupa sempre di buttare l’immondizia, quella che non va a dormire se ci sono piatti sporchi nel lavello, quella che non esce di casa se prima non ha rifatto il letto, quella con le tasche piene di schifezze se non incontra un cestino per strada, quella che non sale sull’autobus senza il biglietto, quella che quando si alza dal divano spiumaccia i cuscini e aggiusta le coperte, quella che se le assegnano un compito lo porta a termine prima della dead line, quella che se tra tre giorni deve pubblicare un post su Abattoir, si ritrova una mattina post febbre divorata dal senso di colpa da assenza dal lavoro, a scrivere sul senso di colpa da assenza dal lavoro. Maledetto senso del dovere!

4 thoughts on “Maledetto senso del dovere!

  1. Quella sul senso di colpa da doveri é una riflessione infinita, e non solo perché ci sono nata con! Dentro il senso di colpa/dovere ho imparato che, addirittura, certe volte ci sta la necessità di controllo ed altre pure l’illusione onnipotente che senza di noi non si muove niente (La rima é casuale! ), che a sua volta sottende poca fiducia negli altri, che si trasforma anche in non riconoscimento e o aggressività; potrei ancora continuare, ma no!
    Comunque, sarebbe fantastico fare a meno di tutte queste cartacce da mente/tasca che non sa dove svuotarsi, ma chi nasce tondo… etc. É però pur vero che si può migliorare: io ci ho lavorato tanto e oggi riesco a dire dei “no” o dei “non c’è la faccio” e di molta gente mi fido, tipo di voi, e cosí delego, etc.
    Sembra follia, ma sono conquiste :) Quindi a volte viva la febbre!

    • P.s.: ma senso di colpa da dovere é un poco diverso da responsabilità! Quella secondo me è fondamentale proprio per vivere in collettività.

      • Per la rubrica “la psicologa risponde”! Ahahah :D Grazie Emi.

        Credo che mi sentissi in colpa non tanto per il pensiero che “senza di noi non si muove niente” ma per la mia specifica percezione di “me stessa”: il fatto di non essere andata a lavoro anche se, in realtà, se mi fossi impegnata un pochino, sarei potuta andare (magari con un altro caffè e un’aspirina), l’ho visto come una sorta di “fallimento”. Il senso di colpa deriva da questo fallimento, da questa delusione del sé. Anche se non stiamo parlando di disinnescare una bomba mortale ma di fare un fottuto walking tour! Ahaha

        A volte ce la faccio a pensare “futtitinni”, ma quelli sono più dei tappi a minitraumi sotterrati :)

  2. Come ti capisco… aggiungo che avere accanto chi scredita il tuo 37.2 è peggio di ritrovarsi soli, di notte, in autostrada con l’auto in panne. Io, pur di non andare in malattia vado a lavorare o peggio mi prendo le ferie… tutto ciò è sbagliato: non dobbiamo mai dimenticare che la malattia è un diritto sacrosanto e che il senso del dovere presuppone pure il rispetto per quella parte di noi che non ce la fò…
    Un abbraccio :)

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