Storytelling – Speriamo che piove

di Gabriele Monte

Dieci anni fa ero ancora a Palermo. Nella parrocchia che frequentavo c’era una giovane rom che, ogni domenica, chiedeva l’elemosina con la figlia adolescente. Non stavano fuori della porta, ma su una fila di sedie appena dentro i locali parrocchiali. Avevano preso “il posto” di un’altra famiglia, trasferitasi in Belgio, ma erano più cordiali e discrete; invece di insistere sul denaro, inoltre, chiedevano più spesso qualcosa da mangiare.
Passò del tempo e imparammo a conoscerci. «Perché ti fermi a parlare con loro?», mi chiedevano i parrocchiani.
«Perché sono persone, per lo stesso motivo per cui parlo con chiunque altro», rispondevo.
Non fui il solo a fare il salto oltre la diffidenza: anche il parroco le aiutava, e alcune donne mostrarono affetto e umanità quando la ragazza diede alla luce un altro bambino.
Era il quinto o il sesto. Mi raccontò di aver avuto il primo figlio a 16 o 17 anni. Io le feci gli auguri e, quando arrivò il momento, le regalai i confetti della mia laurea triennale in lingue. Contraccambiò gli auguri e aggiunse che lei e la sua famiglia venivano dalla Bosnia, ma erano partiti dal Kosovo, che avevano vissuto in Svizzera e che lì aveva imparato il tedesco e aveva lavorato come interprete, più verosimilmente come mediatore interculturale.
«Mi pagavano bene», disse.
«E perché non continui, non ci riprovi?»
«Io voglio lavorare, avere una casa, ma chi mi prende a servizio qui? Ho chiesto all’assistente sociale missionaria che viene da noi, ma non c’è niente. E poi, qui, pagano poco».
In un’altra occasione le incontrai all’ingresso della Facoltà di Lettere e Filosofia. Non so chi fosse più sorpreso.
«Che ci fai qui?»
«Io ci studio. Voi che fate qui?»
«C’è una festa e ci hanno invitato. Vieni, entra.»
«Una festa?»
Mi offrirono del caffè, ma rifiutai. Una donna più anziana ne rimase offesa e iniziò a contestare il mio rifiuto, ma lei disse di lasciarmi in pace perché ero loro amico. Me la cavai portando Mira, la figlia, ai distributori di merendine, perché voleva prendere qualcosa da mangiare.
Vidi le locandine. Era un seminario sul popolo rom, aperto al pubblico e organizzato dall’Arci insieme ad altri enti e associazioni: il tema dell’incontro era un progetto per l’integrazione della popolazione rom di Palermo, messo in atto con il patrocinio del Comune. In quel momento stava intervenendo Alexian Santino Spinelli, già docente di lingua e cultura romaní presso l’università di Trieste. Avrebbe concluso l’evento, in effetti, un momento di festa con canti e balli tradizionali romaní.
Qualcuno protestò per il fatto che alcune delle persone presenti, quel pomeriggio, avessero usato i bagni per lavarsi e farsi lo shampoo. L’acqua, effettivamente, non era un bene da dare per scontato, al campo nomadi vicino allo stadio; in più, era estate.
«Speri-a-mo che pi-o-ve! Fa caldo da noi, c’è lamiera».
Trascorsero i mesi e si avvicinò il momento della mia partenza per Genova. In parrocchia qualcuno propose di porre fine alla loro presenza nei locali d’ingresso, perché erano avvenuti un paio di furti e, ovviamente, le accuse erano ricadute su di loro. Rimasero ancora qualche tempo, non so fino a quando.
Una domenica di ottobre ci salutammo e mi augurarono “buona fortuna”.
«Che Dio cammini con te».
Non le ho più viste, ma non le dimentico. Ci rivedremo forse lungo la strada, lungo il cammino.

2 thoughts on “Storytelling – Speriamo che piove

  1. Oltre alle difficoltà alla convivenza di culture molto diverse, se cercassimo di conoscerci di più passeremmo giornate interessanti. La paura dell’altro i pregiudizi, giusti o sbagliati che siano, lo impediscono. Peccato.

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