Paziente 137

Mai avrei pensato di scrivere un post dal pronto soccorso, ma tant’è, ormai ci sono, approfittiamone, il tempo non manca: devono darmi ancora gli esami, sono le 3.59 e credo che ci vorrà ancora un’ora.

Sono arrivato cinque minuti prima dell’una in codice giallo: cuore a mille e pressione a zero. Mi ha fatto paura più veder piangere le mie figlie che il blocco intestinale, e più l’imbarazzo del titolare del ristorante, restìo a chiamare l’ambulanza, che il fiato corto e le vertigini. Non aver visto mia nipote spegnere la sua prima candelina… Non è colpa di nessuno, mi ripeto mentre sono in barella. C’è chi sta peggio di me, chi ha avuto un infarto e non ha avuto nemmeno la fortuna di arrivare in questo schifo di ospedale.

Una premessa è doverosa: da quando sono qui gli infermieri e i medici non si sono mai fermati un attimo. Triage, medici e metronotte pronti ad assistere un via vai di codici bianchi, verdi, gialli e rossi. Certo, qualcuno usa modi poco pacati per dire ad un vecchietto, ad esempio, di alzarsi dalla barella, ma questa è solo la punta dell’iceberg: non pretendo mica che si facciano corsi di empatia agli inservienti, bisognerebbe scomodare il ministero della pubblica istruzione per fargli ripetere gli esami di quinta elementare, visto le fogne che si ritrovano al posto della bocca. Ma tant’è, ormai sono lì, con tutta la loro sfacciataggine da palermitani impostati.

Ci sono momenti in cui faccio fatica a capire dove mi trovo: i corridoi illuminati al neon rendono le facce ancora più pallide, i capelli ancora più bianchi, la vecchiaia, per la maggioranza dei presenti, orrenda. Guardo i visi incartapecoriti di anziani parcheggiati letteralmente in fila: non mi stupirei se da un angolo sbucasse fuori un parcheggiatore abusivo a chiedere il caffè per sistemare meglio la barella o, peggio, qualche SS per l’ispezione notturna a sorpresa o Dante insieme a Virgilio, pronto a darti una pacca sulle spalle prima di scendere all’inferno.

C’è chi dorme, chi si lamenta per un braccio rotto, chi implora di chiamare la moglie, i figli; un’anziana, piegata in due dalla malattia e costretta su una carrozzina, chiama il suo badante con cadenza ossessiva: li ho visti entrare insieme, ma lui non è più tornato. Si lamenta, ma è un lamento dolce: la sua voce è talmente delicata da ricordare uno di quei piccoli pappagalli esotici in volo sull’isola di Giava: “Luciano?”, ripete, “Luciano?”; e aspetta, con gli occhi chiusi dalla stanchezza.

Non esagero se dico che la sensazione che provo è la stessa che ho avvertito leggendo Primo Levi: non c’è uno straccio di dignità in questo posto, tutto è legato ai codici, agli spazi, al budget, ai fondi che non si trovano, manca persino il Maalox, lo cercano ma non lo trovano.

Il turno e il sonno dei presenti è scandito dall’altoparlante appeso al soffitto: 122 codice giallo, stanza 3.

Dopo l’annuncio intravedo piedi nudi piegarsi sulle barelle, tirarsi sopra le lenzuola di carta, litigare con le zanzare. Passano pochi minuti e il sonno viene interrotto da un uomo sulla cinquantina che pretende giustizia rivolgendosi al metronotte, ai medici, ai presenti e forse al mondo intero: “`Nca perciò, mi avete fatto aspettare quattro ore, e non mi avete ricoverato? Stu esame DOVETE farlo qui, adesso, UORA… bastardi, poi se uno viene con tir e vi mette tutti sutta un vi lamentate… io sto male, pazzo addivento”. Lo guardo, non ha la faccia di un militante dell’Isis, ma di una testa di cazzo che pretende di farsi gli esami gratis, devo ringraziare pure lui se gli ospedali sono in questo stato: la voglia di fottere sempre e vivere di assistenzialismo, probabilmente, è nel DNA dello stesso palermitano che poi si lamenta lasciando i bicchierini di caffè sparsi per il reparto. Mi brucia lo stomaco, volano parole, ma poi il coglione se ne va, un fulgido esempio di incrocio tra ominicchi e quaquaraquà.

Non c’è speranza in una società dove regna l’ignoranza, non è solo questione di budget, è mancanza di concetti base come il rispetto per il bene comune, la cosa altrui: è l’inedia che ci ucciderà, non il budget a disposizione.

Il turno scorre, una signora mi da il buongiorno, ride: “eh, oramai agghiurnò, taliassi che luce chi c’è“.

Finalmente arrivano gli esami: niente infarto, solo una brutta congestione. Vengo congedato, mi lascio alle spalle la puzza di ospedale, le povere anime sulle barelle, un grosso spavento, sei ore di attesa. Le porte si chiudono alle spalle, il cielo è di un celeste commovente, c’è silenzio, qualche uccello passa ai fatti e comincia a cantare; mi torna in mente la stessa voce, dolce e delicata, abbandonata sulla sedia: “Luciano?-Luciano?”. Chissà dove cazzo è andato, Luciano.

 

4 thoughts on “Paziente 137

  1. Le esperienze allucinanti sono quelle che più spesso ci lasciano qualcosa a livello emotivo, grazie Marco per continuare a raccontarcele

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