Io sono quello

di Dora Pistillo

«La causa fondamentale dei problemi è che nel mondo moderno
gli stupidi sono sicuri di sé mentre gli intelligenti sono pieni di dubbi.»

(Bertrand Russell)

Da bambina ho passato molti pomeriggi su una soglia. Era la soglia della finestra che dava su un balcone nel retro del palazzo in cui vivevo. Per me la soglia, quella soglia, era un luogo importante. Ero tra la sicurezza che avevo alle spalle – la mia stanza, in cui dormivo con mio fratello – e il mondo che si apriva con tutti gli aspetti del mondo pronti ad offrirsi. Voli di rondini, latrati di cani, vociare di bambini e madri che chiamavano per la cena. Automobili che parcheggiavano e che partivano scandendo il ritmo della vita dei genitori che andavano e tornavano dal lavoro. Le luci del giorno, gli anziani che lavoravano nell’orto, gli alberi da frutto che cambiavano col rigenerarsi delle stagioni, odori e rumori di stoviglie all’ora di cena, lucciole a maggio, api e calabroni, scie di formiche e i pensieri e l’aria che respiravo e che sentivo fluire nelle mie vene. Ero felice, in quella che sembrava solitudine sapevo immergermi e diventare parte del tutto, senza lasciare la soglia. Osservavo, mi ponevo domande e cercavo risposte, a volte leggevo un po’ e mettevo in relazione quel che leggevo con ciò che dalla soglia potevo cogliere.

Nel tempo mi sono spostata, ho cercato di superare limiti oggettivi e soggettivi, non ho mai sentito di appartenere ad un luogo o a un gruppo, forse per le mie origini, forse perché ovunque andassi non ero mai riconosciuta come una del gruppo, una di famiglia e ho sempre avvertito a pelle una certa diffidenza da parte di persone comuni. Forse per il mio aspetto – che qualcuno trovava insolitamente esotico – forse per la mia cautela nel parlare con le persone, che spesso erano contrariate dalla mia precoce autonomia intellettuale che difendevo ostinatamente.

Penso a tutto questo e alla difficoltà di essere umani, in tutti i sensi. Non posso che rivolgere il mio pensiero a tutte quelle creature che non hanno mai potuto avere una soglia che permettesse loro di sentirsi al contempo al sicuro e con una prospettiva da esplorare. Penso ai bambini nati e cresciuti in tempo di guerra, a quelli che non hanno mai potuto esplorare la propria emotività, a quelli che non sanno come barcamenarsi in un mondo di perfetti sconosciuti diffidenti e incapaci di vederti come parte della famiglia. Penso ai ragazzi che incontro nelle scuole, perché studiando arte, una sera, nel letto ho pensato che era perfettamente inutile essere un’artista celebrata se non riuscivi a entrare in contatto col cuore delle persone che ti circondano. È inutile essere intellettuali se i tuoi sforzi non sono tesi a dare a chi sta crescendo e che potrebbe invece godere del tesoro che hai coltivato con le tue forze.

In effetti – su questa pallina da ping-pong che è il mondo – non ha senso ricoprire alcun ruolo di sostanziale importanza, se non si ha il coraggio di imparare a rimboccarsi le maniche e dare il proprio contributo a un onesto e genuino progresso della società.

Ho avuto modo per un certo periodo di avere a che fare con bambini disabili, fare la pizza con loro, impastare insieme e definire dei tempi, delle regole di convivenza, insegnare a maschi e femmine che se si è nati da delle ragazze non si possono trattare con poco rispetto proprio le ragazze. Perché equivale a sputare nel piatto da cui si mangia. Pulire con loro, caricare insieme le lavatrici dei loro piccoli indumenti intrisi d’estate e d’infanzia. Malgrado i mille problemi fisici e non solo, ognuno dava il proprio contributo.

Da insegnante mi sono trovata a sentir dire da qualche collega: “Perché ti lamenti e ti disperi, tanto, cosa vuoi che facciano questi da grandi? Non disprezzare questo lavoro, non sputare nel piatto da cui mangi. Questi, te lo dico io, devi considerarli per ciò che sono: MATERIALE UMANO.”

Qualche sera fa, Alberto Angela spiegava che i nazisti definivano gli ebrei “MATERIALE UMANO”. Dopo aver fatto il possibile con dei bambini sotto i 12 anni per invitarli a pensare sé stessi al di là delle difficoltà e delle disabilità, per educarli all’emancipazione e all’autonomia, sentire queste parole mi ferisce sempre. Se si pensa così di ragazzi normodotati di cui in realtà pochi si occupano di uno sviluppo consapevole, che ne può essere di tutti quei ragazzi che crescono accompagnati da un carico fisico e psicologico che noi non saremmo in grado di sopportare? Che ne è di tutte quelle persone che arrivano su mezzi di fortuna affidati a un qualche dio dalla propria madre per sfuggire a una guerra e che a volte perdiamo in modi miserabili di cui siamo ignari? Che ne è di tutte quelle persone che ogni giorno si sentono come stoppini consumati ed esausti nel marasma della vita fluida e rapace di questa società invisa allo spirito santo? Che ne è di ognuno di noi che non siamo né più né meno che grumi di sangue e polvere come tutti gli altri e presto il vento ci tramuterà in concime per la terra? Investite nel dare, nel dare ogni cosa che vi possegga veramente, che non sono i quattro stracci decorosi che custodite in begli armadi o i quattro spicci che sperate possano servire in tempi duri. Questi sono già tempi duri. Date l’unica cosa che davvero vi appartiene e senza privarvene: la vostra esperienza.

E-ducatevi, tirate fuori da voi il meglio che potete essere e che vorreste essere, per tirare fuori dagli altri il meglio che possono essere e che sperate di incontrare sul vostro cammino. Perché una cosa che imparai respirando su quella soglia tanti anni fa e che di recente ho scoperto un una cultura lontana nel tempo e nello spazio, “Io sono quello”: non c’è confine, limite, separazione tra tutto ciò che abita il mondo a cui apparteniamo.

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