(O) Roma (o la morte)?

Del film non mi ha colpito la lotta di classe che sta sullo sfondo in modo potente, e neanche il maschile bastardo e patriarchista. Mi ha preso invece molto l’onnipresenza della morte, reale e simbolica. Soprattutto delle condizioni a cui si muore. Questa “sconosciuta assoluta” (la morte) è entrata nella mia vita in modo “indicibile” a circa 11 anni con la morte di mio nonno paterno, di cui i miei genitori non ebbero il coraggio di raccontarmi. In modo simile, la morte della mia prozia Lina, che amavo come una nonna molto veneranda, mi fu crudamente mimata lungo il tragitto casa-ospedale. Per il resto silenzio. L’elaborazione del lutto era anch’essa ignota e tutta a carico di una ragazzina stranamente un po’ ansiosa. Dopo ci furono altri fatti di cui non narrerò, ma soprattutto ci sono state le morti in vita e ora c’è questo film, che parla di qualcosa che sospettavo da tempo e che poi mi hanno meglio insegnato, ovvero che la bruta morte sta là dove non si è mai nati.

Non intendo qui “la prima nascita”, quella traumatica e con tutte le frattaglie sanguinolente, come dice la mia collega, sparse sotto cosce materne divaricate… Parlo della “seconda nascita”, quella difficile e rara in cui afferri gli antenati e le loro sindromi, accetti che te li sei ficcati dentro perché non potrebbe essere altrimenti e, come un artigiano, te li lavori fino a renderli viventi in un te stesso che ne è la sintesi creativa ma anche altro: te.

Cleo invece vuole morire. Forse non sa cosa c’è al di là del suo giorno libero al cinema, al di là del cortile con la cacca di Borras e sopra o sotto la scaletta ferrosa che la porta nel monovano che divide con Adela. Forse Cleo non è mai nata. Frammenti di vita si insinuano nell’insensata ginnastica notturna con la collega; insensata poiché arriva dopo un giorno di stare a firrio agli ordini degli altri, di tante e troppe capriole e canzonette realizzate appunto per gli altri. Eppure c’è qualcosa di vitale e di creativo in quella ginnastica, mentre attorno vige in ogni caso la simbiosi vischiosa di una famiglia e di una cultura in cui “sei” solo in funzione del tutto; tant’è che presto arriva qualcuno a ricordarle che la donna è sguattera e madre e naturalmente lei esegue anche qui: resta incinta, tiene il bambino e spera di essere vista. Non c’è altro. Null’altro al di là di Roma, al di là del dolore degli altri che scassa pilastri e cortili adorni di uccellini e di cani cagosi. Non c’è altro finché non arriva la morte vera: quella della dignità tradita fino in fondo, con un uomo che aggredisce la maternità che lui stesso ha co-creato e che per poco non ti spara solo solo perché sei madre di lui; quella di chi fa sentire in dovere di dire “sì” mentre stai vivendo il lutto di tuo figlio; quella che fa salvare i figli degli altri mentre dovresti, a rigor di logica, non poterli neanche guardare.

Non sono nessuno per decretare che Cleo, in mezzo a tutto questo, fosse morta; certo è che un desiderio non lo esprime (uno suo no, ma quelli degli altri li nomina e li accontenta!) e rimane sempre addirittura composta. Lacrime composte anche quando la sua bambina nasce morta: da donna culturalmente schiava, la piccola giustamente “resta morta”, non nasce neanche la prima volta, si rifiuta di respirare. E tuttavia questa morte è quanto di più vitale Cleo vive, esprimendo finalmente su essa il suo desiderio-non desiderio: “non la volevo…”.

Qua e là ho letto che Roma è la storia della dignità della povera india Cleo. …Penso lo sappia solo Cuaron cosa ci sta dietro davvero. La mia soggettività però in Roma ci vede la morte, quella brutta, non acrobatica, come la definiamo in un gruppo di riflessione; quella indignitosa che non sa se si è vivi o si è morti, giacché la vera vita non sta nell’atto automatico del respiro o del muscolo involontario che batte: la vera vita sta nel sapere chi si è! Ed è in questi casi e in questi soltanto che è possibile viverla e morirla con una dignità che è diversa dalla passività, che è “l’accettazione dei limiti e della finitezza umana unitamente alla possibilità di valorizzare ciò che si è compiuto, di accettare ciò che non potrà mai essere compiuto e, laddove possibile, di guardare alla propria esistenza nel suo valore più ampio e transgenerazionale come un lascito, un seme nella terra della vita”*.

Alla fine, l’aereo “Para Libo” ci fa intendere che comunque da qualche parte si va, ed io, devo dire, sono d’accordo. Cuaron è stato bravo: ci ha fatto vedere che ha afferrato Cleo/Libo, i suoi antenati e le loro sindromi, che se li è ficcati dentro perché non potrebbe essere altrimenti e che, come un artigiano, se li è lavorati fino a renderli viventi in un film che ne è la sintesi creativa ma anche altro: è parte del suo Sé. Come a dire che, quando questo processo vitale può avvenire, le mille morti reali e simboliche che incontriamo nella vita diventano, come scrive il mio amato Yalom, “esperienze di risveglio” che conducono a una vita più piena. “Proprio come i cerchi nell’acqua di uno stagno, continuano a svilupparsi finché non sono più visibili, anche se il movimento continua a livello impercettibile”; e questi “cerchi nell’acqua” in realtà sono “vivi”: lasciano “dietro di sé qualcosa dell’esperienza della propria vita, un qualche tratto, un frammento di saggezza, una guida, una virtù, una consolazione che viene trasmessa ad altri”: “una trasmissione silenziosa, gentile e immateriale che si attua da un individuo all’altro”.

Non solo “O Roma o la morte”, dunque, ma anche “O Roma o la vita”. Non solo a dire, infatti, che da certe robe decise da altri (Roma e il suo stile di vita) nascono la sottomissione e quindi la morte psichica e reale, ma anche che dalla trasformazione di questa morte tramite un atto rivoluzionario, erotico e metamorfico può nascere, a volerlo, la vita.

…Strano scherzo, poi, che dopo aver scritto ciò io abbia trovato morto il mio adorato gattone. Anche lui sarà un bellissimo cerchio nell’acqua…

* da “L’acrobatica del morire”, di L. Rugnone, M. L. Traina, V. Lenzo, N. Venturella, G. Ruvolo, G. Falgares, in  www.narrareigruppi.it .

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