La qualità dei sogni

“La vita non è aspettare che passi la tempesta.
Ma imparare a ballare sotto la pioggia”

(Gandhi)

C’era una volta una ragazzetta coi denti larghi in una casa annoiata, forse altro, forse non felice. E c’erano dei fogli volanti, una matita e un progetto di ristrutturazione scarabocchiato non si sa perché, forse per riempire il tempo.

C’era una volta pure una ragazzetta coi capelli troppo lisci che blaterava di diventare psicologa.

…Era l‘adolescenza e si capiva poco di quello che saremmo stati, al di là dei cerchietti imbottiti e delle fattezze incognite che si temeva avrebbero generato nuovi mostri. A cose fatte, direi comunque che, non si sa come, dovevo possedere una specie di palla di cristallo inconscia che mi faceva prevedere qualcosa là dove qualsiasi previsione si sarebbe persa nel buio pesto di un presente scoraggiante. Questo, però, non lo sapevo nemmanco io, e così gli anni sono passati con molte “fasi no”, tipo momenti di ribellione, di fuga, di desiderio di roghi di case&famiglie, di depressione, di abbandono di qualsiasi progettualità. A 22 anni vivevo ormai stabilmente dai miei nonni ed ero iscritta all’università (psicologia ovviamente), ma luce e futuro non ne vedevo e a un certo punto, complice l’arrivo dell’ernia, mi stiedi più o meno a letto per un anno, iniziando a fantasticare scenari alternativi che comunque non si faceva nulla per realizzare. Le piccole cose intanto cambiavano, ma per non far cambiare niente: il tempo scorreva, il mio naso restava invariabilmente storto, le lentine smisi di metterle per una repulsione nata direttamente dall’occhio. Non sapevo più chi ero. E insomma, lo posso dire: la psicoterapia mi ha ripreso là dove pensavo che tutto fosse impossibile. Non credo sia stato un miracolo. Credo sia stato un modo di amarsi e un dono da parte di chi mi ha aiutato a procedere verso me stessa. Così a poco a poco qualcosa si è mosso: ho ripreso a studiare, lenta, lentissima, ed è nato Abattoir e con lui un mio certo pensiero politico: la via della condivisione era inaugurata… avevo capito che, grazie all’Altro, si può nascere e rinascere, che pensare insieme faceva bene e curava. Non parlo ovviamente di robe perfette, sono sempre stata iperattiva e curiosa, desiderosa di un qualcosa che chissà chi poteva darmi. Nel mezzo di questo cammino, comunque, le relazioni si sono susseguite e le controdipendenze anche. Poi mia mamma è andata via e i miei nonni hanno cominciato ad invecchiare: me ne sono accorta dai cannoli in freezer e lì ho avuto paura. Sì, ho avuto di nuovo paura di non farcela, di restare sola. Ma qualcosa dentro di me pareva essersi attivato e mi ha aiutato a procedere: mi sono laureata 2 volte, ho iniziato a lavoricchiare, mi sono iscritta alla scuola di psicoterapia… quella che sentivo fare per me, al di là dell’idea di “psicoanalista scintillante alla Freud”. Ok, tutto in grande ritardo rispetto alla mia generazione; eppure, l’ho fatto e davvero non c’era messo. Forse è accaduto perché, come diceva mia zia, “ho avuto poco e ho sempre avuto fame”; da lì un grande potere desiderante ed una grande determinazione. Certo, ci sono stati periodi in cui era difficile svegliarsi, far bastare i 5 euro settimanali, fare la revisione alla macchina, pensare a come pagare l’università, cercare di fotocopiare dignitosamente e indignitosamente ogni libro comandato dai prof. Difficile è stato anche lottare col proprio perfezionismo riparatore. Ci sono stati giorni bui. Mi sono sentita sola, ma non lo sono mai stata fino in fondo grazie a mia nonna: lei mi ha aiutato a vedere del buono in me, permettendomi di studiare e di non rinunciare ai miei sogni anche quando tutto pareva impossibile. A un certo punto sono anche arrivati dei risarcimenti per certe grosse ingiustizie subite, e lì ci ho potuto credere davvero a partire dalle mie gambe e dalle mie spalle. Ho economizzato, anche se sarei potuta fuggire a Honolulu o a Santa Cruz. Eppure a non l’ho mai pensato, mannaggia. Il mio Super-Io riparatore è sempre stato troppo rigido per concedermi di mollare tutto! Forse perché consideravo tutto questo un dono cui rendere onore e merito, seppur a mio modo. Così, tra le varie, a 33 anni ho deciso di lasciare il nido, che non era quello originario, ma quello dal grande valore salvifico dell’accoglienza. E’ stata veramente dura andare via da casa, ma era necessario per crescere: guardavo i miei gatti e piangevo per loro, convinta di avergli fatto un torto… poteri della mente che piange su di sé attraverso gli altri! Insomma, uno dietro l’altro e per prove ed errori ci sono stati prima un bivani, una casa sui monti e oggi un nuovo traguardo: la casa d’infanzia, quella più odiata, quella in cui si passavano estati misere a pensarsi tristi e basta, con mamma e papà presi dalla loro questioni che manco immaginavano cosa potesse rendere sereno un figlio o come occupargli le giornate al di là dei Topolini prestati dallo zio; tempi in cui il telefono a gettoni del Bar Roma di Cinisi era il mio miglior amico per chiamare la nonna e il fidanzatino una volta ogni 3 giorni, il gettone era il bene più prezioso e la sorpresa più esaltante era la visita settimanale dei nonni da Palermo con i panini con la milza per tutti. Cose stupendamente semplici in mezzo a un oceano di nulla.
Alla fine, oggi vi scrivo in pigiama da questa casa ri-nata, ristrutturata da me e per me col mio gusto, con le mie forze e con la mia determinazione; col desiderio trasformativo di dare un senso a quanto accaduto in mesti 36 anni e mezzo di vita… Ho addirittura la lavastoviglie!

Le cose accadono e passano, in qualche modo; 25 anni dopo, capisci che in qualche modo accadono e più o meno passano. Era, in effetti, più o meno 25 anni fa… Ho dovuto lasciare andare, rassegnarmi, capire che si deve andare avanti, che i sacrifici altrui hanno un senso solo se diventano semi-da-fiore-o-da-frutto. Ne è passata di acqua sotto ai ponti, fatta di lacrime, di perdite, di costruzioni faticosissime in mezzo alle macerie. Incredibile come il tempo trasformi… come i percorsi pazienti sformino e riformino, costruiscano, realizzino. Oggi mi guardo intorno e mi impegno, anche quando non sono felice, a vedere il fiore nato dai semi: oggi ho questa casa e ho uno studio bellissimo, creato per me e per i miei pazienti in modo da rendere merito a ciò che ho ricevuto: aiuto e accoglienza. Ho dei pazienti che si affidano a me e mi sono diplomata da poco psicoterapeuta. Ho realizzato il sogno della mia vita, e ogni volta che me lo ripeto non riesco manco ad aggiungerci orpelli perché è già tutto qui e in questa piccola storia che vi ho accennato. Basta dirlo e mi scendono lacrime calde sul viso. Come ho fatto non lo so, forse è accaduto perché non ho mai mollato fino in fondo, e quando l’ho fatto ho comunque avuto la forza e il coraggio di affidarmi a qualcuno. Di questo ringrazio tutti i giorni, perché significa che c’è speranza. E allora, visto che siamo in periodo, vi dirò che per me, al di là dello spirito Grinch che mi abita, questo è il Natale… lo dicevo a un paziente qualche giorno fa: “è per rinascere che siamo nati” (disse Neruda) e per aiutare anche gli altri a mettersi al mondo grazie agli apprendimenti derivati dalle nostre/loro ferite.

…Questa, penso, è la qualità dei sogni: semplice, faticosa, innamorata… A volte di ritorno illuminato alle radici, a volte profondamente trasformativa. E sempre innamorata, sempre faticosa… Ma tant’è: siamo qui, pieni, in fondo, di conquiste incredibili! … E ancora non è finita, pare!

“Che se cado una volta
Una volta cadrò
E da terra, da lì m’alzerò”.

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