COVIDecameron #5 – L’amore ai tempi del virus

Di Dora Pistillo per il contest “COVIDecameron – Storie in quarantena”.

Mi ha scritto stasera, si è firmata con un poscritto “La sua ex studentessa preferita”. Vorrebbe provare la via dell’insegnamento. Che strana emozione. Vorrebbe imparare le cose che forse sente di non aver imparato a sufficienza a scuola. Mi chiede un parere, mi chiede informazioni ed io sono contenta. Mi scrive nel suo linguaggio informale e un po’ stropicciato e spero abbia la forza di crescere a sufficienza per essere felice di sé come insegnante.

Discussi spesso con i colleghi, mi arrabbiavo e poi sfogavo con insane sessioni notturne di formaggio. Perché te la prendi tanto, non sputare nel piatto dove mangi, goditi il privilegio e non pensare a loro, tanto – ribadivano, senza pudore – cosa vuoi che facciano nella vita!
Ed io sentivo le parole di coetanei a adulti alla ragazza che ero, e alla giovane donna che ero e alla donna che sono: “Tanto, che vorresti fare nella vita?”
Come a dire che una persona non abbia il potere di decidere se rimanere polvere o agitarsi per mescolarsi a sudore e sangue ed essere vita.
L’amore ai tempi del virus non può che essere per i propri studenti. Che il provvedimento più imponente è la sospensione delle attività didattiche. Ed è anche per loro che perdo il sonno, nelle mie tribolazioni sterili ed esauste e ancora non ci credo e mi è anche tornata la tosse cronica.
Cavolo! Dovrei proprio lasciarlo sto lavoro!
Tra un’imprecazione a fil di voce e un’intossicazione da latticini penso alle urla somministrate equamente e indifferenziatamente negli ultimi giorni di scuola, alle difficoltà di un ragazzo che ai primi di marzo “mi mancano 3 giorni di assenza per essere bocciato a tavolino, Prof.”
Al ragazzo accolto a novembre che fa capire il senso di responsabilità genitoriale ad un suo coetaneo. Alle mille storie che ciancico ogni notte e mi domando “perché?”
Al padre tunisino che spera che ogni essere umano sia colpito a morte dal virus, così finalmente “ce la finiamo con la stupidità umana della burocrazia.”
Agli studentelli così divertiti dal poter indossare mascherine a scuola e giocano all’untore nei corridoi.
Ai colleghi presi da mille cambiamenti, al vertice preso dalla responsabilità che mi suscita tenerezza e rabbia allo stesso tempo. Ma forse il problema sono io, che sono troppo poco fiera del mio essere, in fondo, fumantina.
La comprensione umana per chi ha una vacanza insperata, e chi da immigrato originario della Cina, copre con una “chiusura per vacanza” il proprio negozio perché teme rifiuti xenofobi.
Penso a quei genitori che non hanno mai imparato a essere studenti e a quegli studenti che devono spiegar la vita ai propri genitori. Ai colleghi delusi, affaticati, stupiti, arruffati, composti, benevoli, astuti, seri, “professionali”, decorosi, appassionati, illusi, rivoluzionari, merendari della prima ora, stacanovisti per arrotondare, anticipatori della vis polemica per contratto, precisi o inflessibili, attenti critici delle ottemperanze dirigenziali, poveri manichini sgualciti, quelli che “ascolta me, per fortuna c’è lo stipendio statale”, idolatri del dio programma o scaltri ritardatari al cambio dell’ora, complici cambiatori di valute per la macchinetta del caffè che non dà resto. Penso ai bidelli e al personale di segreteria, martiri condannati alla presenza fisica in un vascello che non può dare segni di cedimento nella burrasca, fusi pezzi di inossidabile struttura e vaghissima memoria nelle teste degli studenti cresciuti. Il virus è come una livella, non fa distinzione, ma credere in una studentessa dall’italiano informale e un po’ stropicciato e scoprire che potrebbe invertire il senso di rotazione della trappola per criceti e salvare la rotta, questa è la vita – o come scrisse una ragazza ambiziosa – “cest la vit, baby.”

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