COVIDecameron #9 – Pandemia per violino, op.40 n.19

di Agata Faraone per il contest “COVIDecameron – Storie in quarantena”

“Non sai cosa ti farei, non ne hai proprio idea” – le sussurrò all’orecchio, cominciandole a sbottonare il vestito sul petto. “Ed io te lo lascerei fare” – rispose lei. Stava per emettere un gemito di piacere quando invece… Starnutì. Lui arretrò di un passo, con gli occhi sgranati: gli mancò il respiro e se ne andò senza spiegazioni, sentendosi ormai contaminato. A casa si strappò i vestiti e li buttò dal balcone, nel giardino sottostante, e si coprì soltanto con la vestaglia di raso bordeaux, assumendo l’aria di un nobile decaduto di fine secolo, con la pelle chiara e le guance rossastre, i folti capelli castano chiaro con la riga da un lato. Qualche chilo di troppo nel giro vita tradiva però le abitudini alimentari più che moderne.

Nella sua mente cresceva intanto il disagio, il respiro ancora affannoso. Ormai era notte, si diceva, non avrebbe potuto far nulla fino a domattina, per sincerarsi d’essere sano o almeno disinfettarsi. Il violino!, pensò: era la sola cosa che potesse calmarlo. Sciolse allora le mani rimaste serrate in pugni da quando l’aveva lasciata da sola, attonita, nel parcheggio buio. Si avvicinò allo strumento e fece scivolare le dita fredde sui fianchi, poi sulle corde, toccandole ad una ad una, ad occhi chiusi; infine risalì verso il collo e lo afferrò di scatto. Aprì gli occhi e si diresse sulla terrazza: il pavimento era freddo per i suoi piedi nudi, ma non lo sentiva, la notte era umida e l’aria bagnata di luna pungeva la sua pelle nuda sotto la vestaglia leggera.

Posizionò il violino sotto il mento e alzò la mano con l’archetto in pugno come una spada, preparandosi a un duello di cui non conosceva le sorti. Sentì irrigidirsi la lunga cicatrice che correva dall’ascella per spegnersi quasi al gomito; ma quella, compiacente, lo lasciò subito solo con i suoi avversari e si tolse dalla scena con un inchino. L’archetto si adagiò sulle corde, in attesa, un respiro profondo si propagò nel suo corpo: la musica cominciò. Sulle corde scolava ogni tormento, ogni incubo, ogni scoria di pensiero, per trasformarsi in suono. Un’armonia perfetta tra lo stridore acido e la paura che stava proliferando nei sotterranei del suo io, dietro ai polmoni stremati. Per rapidi istanti apriva gli occhi, che brillavano di un verde intenso, grevi come le paludi del Nilo ove la lucidità si sarebbe impantanata e sarebbe morta di febbri infinite. La sua mano sinistra, in perfetto accordo con la corteccia frontale del suo cervello, era arcuata alla rumena, con i polpastrelli vicini, sottomessa alla velocità dell’ispirazione e dell’esecuzione; ogni gesto era istintivo, primitivo, come ogni sua paura.

Alla prima quartina di semicrome, con movimento fluido dell’avambraccio, si domandò quale malattia orribile stesse covando dentro di lui, quale breccia aprisse nel suo sistema immunitario. Ad ogni semicroma uno sterminio di anticorpi, che cadevano come Tosca nell’ultimo atto. Un brivido si fece strada e raggiunse la foce della sua mente: e se fossi contagioso? Quel brivido divenne trainante, dominatore e ostinato come la ripetizione ritmica che stava eseguendo; con la cadenza di una tosse tubercolotica era un decesso ad ogni nota.

Semicroma: i suoi cari ammalati. Semicroma: i suoi amici ammalati. Semicroma: i colleghi di lavoro. Semicroma: bambini innocenti. Semicroma: immagini in TV. Semicroma: gente costretta a chiudersi in casa. Semicroma: uomini con mascherine e guanti. Semicroma: file di soldati per le vie delle città deserte. Semicroma: bare in schiera. Semicroma: bare anonime. Semicroma: senza fiori. Semicroma: senza lacrime non sterilizzate. D’un tratto un suono punse le sue orecchie, un’ambulanza era passata rapida come un lampo prima del temporale. Si riscosse così da quello stato ipnotico e nella notte acneica di stelle… Starnutì.

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