Il post-covid dei Nevrotici Amenti? #2

L’”emergenza”, ciò che emerge, poteva essere tanto qualcosa di bello e fortunato quanto qualcosa di pericoloso e catastrofico. È stato il naturale polarizzarsi delle parole neutre che ha portato questa parola ad assumere automaticamente un significato negativo, allarmistico.

E’ vero: il Covid ci ha messo sfacciatamente di fronte alla nostra fragilità: dall’oggi al domani, ci ha schiaffato addosso l’impotenza (questa sconosciuta!), facendoci toccare con paurosa mano che la vita e il corpo hanno dei limiti. Ambulanze, Incubi, mascherine come museruole, distacchi e multe sulle carezze, sirene, numeri verdi che non rispondono, tamponi che non tamponano, morti sempre più morti e sempre meno seppellibili… Ci è toccato insomma “superare il trauma di dover tornare a morire” quando ormai eravamo convintissimi che saremmo vissuti per sempre (J. Saramago, “Le intermittenze della morte”): SBEM! Timpulata di quelle che fanno voltare la testa al contrario e u ciriveddu puru, diceva mio padre.

Il punto è appunto forse che, come scrive Pierre Chaunu, avevamo dimenticato che si deve morire! Avevamo rimosso già da un po’ di essere corpi vulnerabili, transitori, infettabili! Diceva d’altronde Freud 100 anni fa: “in fondo, nessuno crede alla propria morte, o, il che è lo stesso, ciascuno è inconsciamente convinto della propria immortalità”.

E tuttavia, a maggior ragione direi oggi che il Coronavirus non è stato solo un virus: è stato invero un’„occasione“ condivisa che ci ha mostrato delle cose, tra cui la nostra fragilità e come lo Stato ci ha gestito paternalisticamente durante l’emergenza. E però iddu ha mostrato… poi sta a noi decidere cosa farcene di queste robe! Avremmo ad esempio potuto affrontare il trauma, non schivare la paura, non eludere la morte e provare a trasformarla in una possibilità… Tipo pensarci una volta e per tutte come esseri finiti, ovvero che hanno poco tempo, che creperanno… e che quindi debbono iniziare a coltivare una „buona vita“! E farlo, non so, chiedendoci seriamente qual è il destino che vogliamo per noi (es.: dove vivere, se licenziarci dallo stronzo schiavista che non paga, se lavorare 6 o 11 ore al giorno, se divorziare o no, se figliare o no…) e per i mondi che abitiamo. Avremmo potuto valorizzare la paura della pestilenza recuperando il pensiero e il desiderio progettuale del futuro e la bellezza della responsabilità che serve per costruirlo! Avremmo potuto e potremmo, certo…!

Di fatto, il trauma del “tornare a morire” è stato affrontato senza l’ausilio della psicologia dell’emergenza, e questo non è un babbìo: a noi psicologi hanno chiesto per lo più aiuti gratuiti o ci siamo spesi noi stessi per spirito di servizio; lo Stato-padre non ha “ancora” potenziato il nostro ruolo entro il servizio pubblico e soprattutto non si sofferma su quanta necessità che c’è davvero di noi di fronte a un trauma di portata mondiale che ha fatto saltare ogni certezza. E si va avanti. Si va avanti dissociandosi da quanto è accaduto, pseudo-affrontando il trauma attraverso trasgressioni che fanno fighi, che fanno dimenticare la paura e ubriacare di vita per reazione. “Sì, ancora, più forte! Vai!”: difendiamoci dall’impotenza provata con le unghie, con i denti e con le già nominate bottiglie di birra che ci dicono – sfacciate come il virus! – che la vita è ripresa e che noi si riprende a fare i maiali come si vuole (“Tiè!”). …E’ il metodo “Se mi lasci ti cancello”, insomma. Ma il materiale dimenticato, insegna il film, poi torna e i due, smemorati, si reinnamorano senza sapere come, perché e i cazzi amari che li attendono. Insomma, ecco, noi ci siamo trovati a reinnamorarci della nostra stessa vita di merda pre-covid, senza la possibilità di elaborare il lutto di essere gente che non sa vivere bene, e che di conseguenza, pandemia o non pandemia, non si attrezza (né a livello statale, né a livello individuale) per morire bene. Siamo tornati a correre, ad ammazzare elefanti incinti, ad ammazzarci di inquinamento. …Oggi altro lungomare – stavolta zona Terrasini – arredato da bottiglie di vetro da 66cl.
Le guardo, provo pena e penso che vorrei chiedere aiuto. Perché qui la gente sta male e non lo sa, ed è proprio necessario creare ponti, curare i passaggi, i traumi, ricreare la cultura del pensiero! E’ necessario che ci aiutino a chiederci cosa resta del Covid, della paura della morte. E’ necessario ribellarci! Dobbiamo rifiutarci di essere trattati come Nevrotici Amenti!

Finché ci tratteranno così, allarmandoci dall’oggi al domani, schiaffandoci dai negozi aperti h24 alla reclusione in poche ore senza dirci che quell’allarme è il frutto della poca cura di decenni e decenni, finché non ci aiuteranno a elaborare i traumi ed a formulare progetti non consumistici di buona vita, finché ci terranno buoni con comunicazioni regressive che cambiano dall’oggi al domani (avete notato? Le pubblicità sono già tornate a pompare gli acquisti, altro che “messaggi progresso!”)… Finché il portato etico della parola sarà manipolato, svincolato da cornici, premesse, conseguenze… Finché ci esporranno a questo e noi accetteremo questo, il pensiero su ciò che stiamo ri-combinando non potrà avere luogo e noi traslocheremo da un’emergenza all’altra trasportandoci lo schifo e sempre uguali a prima, intrasformabili, rigidi. Finché ci tratteranno così, noi saremo così.

Ma un dubbio qui sorge lecito…: non è che ci vogliono PROPRIO COSI”? E noi… non è che non siamo più equipaggiati per pensare? E per capire che il non pensiero diventa azione distruttiva ed indi – STOP! –fermarci non per emergenza, ma spontaneamente, per recuperare ciò che di salvifico è andato perduto?

C****! Secondo il lungomare di oggi, non siamo equipaggiati affatto…

One thought on “Il post-covid dei Nevrotici Amenti? #2

  1. La situazione è descritta bene dall’immagine delle Beck’s da 33cl di 2 settimane fa, a 2m di distanza l’una dall’altra e dalla Moretti da 66cl di oggi, più condivisa, meno socialmente distante. Insomma per alcuni si è tornati alla normalità e al “è solo un’influenza!”.

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