“Coviddi”, unni sì?

Oggi vi narro che mi hanno tolto la colecisti: mi manca un organo, dicono!
E’ strano: le prime volte questa frase mi coglie un po’ incredula, nonostante sia stato un intervento programmato. Penso e ripenso: è come non rendersi conto di ciò di cui siamo fatti! “D’altronde era piena di calcoli”, rispondo io, ma invero è la mia parte razionale che parla… Di qua a capire che qualcosa non funzionava bene, che ho subìto un intervento, che ho i buchi nella pancia, un’anestesia generale da smaltire, una convalescenza in cui fermarsi… ne corre! Noto con stupore quanto io faccia fatica ad accorgermi della mia impotenza somatica. Diciamo che la colgo un po’ meglio solo sentendo il dolore: scrivo con fatica, ho i punti e non posso stare tanto seduta né muovermi troppo; in più, per operarmi mi hanno immesso dell’aria nella pancia e quindi tra lei che preme da dentro e magari cibo che incamero io (la fame è tornata!), mi ritrovo con un doloroso meloncino ricamato al posto del panzino.

Per altro, a momenti e dopo quasi 1 anno di assenza dalla Sicilia, mio fratello e mia cognata arriveranno a Palermo, e tutto ciò pure mentre le vacanze dallo studio sono alle porte, quindi difficile prendere un ulteriore periodo di sospensione… Difficile fermarsi e star male in generale! Che paradosso, per un professionista della cura…

“Sempre un buco nella panza hai ed una cicatrice, dei punti dentro… Se esageri può infiammarsi tutto e peggiorare… In pratica devi fare quello che riesci a fare senza dolore… Il dolore è la voce, l’allarme del tuo organismo”; questo me lo dice serio il mio amico medico, ricordandomi che siamo fatti anche di precaria carne.

E insomma, “Dottore, minn’i pintivu!”. Così dico al chirurgo che mi visita quando inizio a rendermi conto… E ma quindi, penso, come durante il Covid, serve il dolore fisico per rendersi conto di quanto ignoriamo il limite, ovvero il fatto che il nostro corpo è appunto precario e necessita di cure e precauzioni? Pare il principio della guerra a casa loro. “…Come siamo ridotti”, farebbe eco mio nonno parlando degli stravolgimenti climatici!

Insomma, notando la mia incapacità a pensarmi malata e a fermarmi senza colpa, sono stata invasa dallo sconforto per la mia piccolezza e per il dolore umano. Ma anche per quanto la cultura neo-liberista dell’H24, della salute a ogni costo, dell’impensabilità della malattia e dell’iper-prestatività mi domini anche a mia insaputa.
In un passaggio successivo, mi sono pure sentita un verme pensando a quei pazienti o conoscenti o individui che non stanno in ospedale come me solo per 3 giorni e o che non hanno una prospettiva di vita migliore dopo la tremenda operazione ics… E tutto questo acuito dalla solitudine: l’altra dose di impotenza nell’essere ricoverati è infatti quella “tutta post-covid” del non poter ricevere visite da nessuno! Da sola e con la nausea, non avevo con chi condividere questi pensieri dolenti e mi limitavo a scusarmi continuamente con l’infermiere per averlo chiamato per l’ennesima volta per aiutarmi ad andare in bagno. Lo step successivo è stato quello di sentirmi ancor più vermetto di fronte alla nonnina di 74 anni vispissima già dopo 3 ore dall’operazione o, peggio, di fronte all’idea di chi affronta in condizioni più gravi questi momenti dolorosi.

“Non ce n’è coviddi!”, recita il meme, ma mi pare che questa frase sia vera solo per la signora e per chi come lei non si trova in corsia e vive di familismo amorale; di certo non vale per me, né per mia cugina che ha partorito da sola (complicazioni da cesareo incluse), né per i miei pazienti oncologici e anziani… “Coviddi” e limiti, mia cara signora che scherzi compiaciuta e croccante di sole sulla mascherina, non ce n’è solo finché non hai la fortuna di sbatterci il musino. Quello che c’è, e pure bello virulento, è la tua assenza di empatia che mi “consola” amaramente di fronte alla mia capitalisticissima incapacità a pensarmi limitata nel corpo …dopo anni e anni passati a mentalizzare i limiti psichici. C’è che non si finisce mai di imparare, ricordiamocelo.

Achille a Briseide: “Ti dirò un segreto una cosa che non insegnano nei templi. Gli dei ci invidiano. Ci invidiano perché siamo mortali, perché ogni momento può essere l’ultimo per noi. Ogni cosa è più bella per i condannati a morte...” (dal film Troy).

Diteglielo così, bello ruspante come un dolore da buco nello stomaco, alla signora di Mondello. 

6 thoughts on ““Coviddi”, unni sì?

  1. Una volta ho avuto un’incidente domestico. Caduta da una scala, mi sono trovata a dover imparare delle cose fondamentali: Una cosetta piccola come il punto di giuntura della clavicola al braccio può vincolare parecchio tutto il corpo. La parte sinistra del corpo, normalmente svalutata, quando attivata lascia esprimere un euforia pazzesca al cervello che aiuta la guarigione. Portare una fasciatura con dignità attrae potenziali prede per avventure. Ci diamo pena del quotidiano e all’improvviso siamo sul ciglio di un burrone e non sempre possiamo scegliere da che parte stare. In bocca al lupo per la ripresa.

  2. C’è anche da dire che qualche ferita (o burrone?)… si sceglie! Io potevo attendere, ma ho voluto togliermi (incoscientemente?) il pensiero! Ora sto bene e in effetti i risvolti non sono stati solo brutti (: Un abbraccio!

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