Storytelling – Sliding Memories – Ricordi scorrevoli

Di Gabriele Monte

Genova, ore 10.00. È una calda mattina di luglio e il 90% di umidità fa quasi lacrimare gli occhi, oltre a scioglierti passo dopo passo. Sono di fretta. Sono in ritardo. Sono inquieto. Devo andare in ospedale per un controllo alle 10.30. La stazione sembra deserta e non c’è nemmeno un autobus. Mi avvicino alla pensilina più vicina alla strada, lì c’è sempre qualcuno e – soprattutto – c’è il tabellone luminoso con gli orari degli autobus in tempo reale.

«Scusate, posso fare una chiamata? Scusa, posso fare una chiamata? Scusa…»

Mi giro e vedo una ragazza dai capelli color rame e con un cane al guinzaglio che chiede ai presenti se possa fare una telefonata. La guardo. Mi guarda. Incrociamo gli sguardi e mi accorgo dei suoi occhi meravigliosi, chiari. Ha un che di familiare, forse l’avevo vista alcune settimane prima, seduta sotto i portici di via XX Settembre come molti altri mentre dava da bere al cane.

«Scusa, posso fare una chiamata?»

«Sì, dai, ma devo prendere l’autobus e ho fretta». In realtà vorrei farti fare una chiamata, ma sono diffidente: tre anni fa mi hanno rubato il cellulare proprio sull’autobus.

«Dai, anch’io devo prendere questo autobus!». E lo ferma. Mi sento braccato, per qualche motivo diffido, anche se essermi tirato indietro mi dispiace.
«No, scusa. Hai provato a chiedere al bar?». Lei non prende l’autobus e va via, rassegnata e pronta a chiedere al prossimo: «Scusa, mi fai fare una telefonata? Devo chiamare un mio amico! Ecco, a dire la verità non ti crede nessuno! Devi sempre raccontare palle!»
Io prendo il mio autobus e vado in ospedale.

La visita del controllo porta buone notizie, così come le analisi del sangue. La ripresa va a gonfie vele. Ci si rivede a dicembre per il prossimo controllo.

Esco dall’ospedale, passo da una vicina chiesa per una preghiera di ringraziamento e per affidare al buon Dio un’altra persona, esco dalla chiesa e prendo l’autobus per rientrare a casa. Non ho smesso per un attimo di pensare a lei, di interrogarmi sull’aver fatto bene o male; ho pensato che questa è la città di Faber, di Fabrizio di Andrè e del suo amore per gli ultimi… Come posso ignorare questa eredità? Mi sono pentito di averle detto di no.

Ore 12.30. Rieccomi alla stazione. Passo dal supermercato per una commissione, esco, prendo la scalinata e percorro la strada che mi riconduce a casa.
Vedo due ragazze che camminano nella direzione opposta alla mia, sullo stesso marciapiede. Una ha un cane. Ed è lei. Di nuovo.
«Scusa per stamattina. Avevo fretta, ero in ritardo, ero incazzato e stavo andando in ospedale. Vuoi mica ancora chiamare qualcuno?»
«No, no, ho già fatto. Scusami tu se ti ho disturbato, però… mi hanno dato la sfratto e mi ritrovo così. Non è che mi puoi dare qualche moneta?»
«Sì». Guardo ciò che ho ancora, ciò che è rimasto. «Oggi ho avuto buone notizie. Ho avuto un tumore, ma i medici hanno detto che sono guarito. Tieni.»
«Mi dispiace. Grazie, fratello». Mi tende la mano e… pazienza per il Covid, oggi correrò il rischio. Ci stringiamo la mano.
Andando via, si volta e mi dice: «Comunque, sono Elisabetta!». Ho pensato a una semplice presentazione al volo: «Io sono Gabriele, ciao!».

Nell’ultimo tratto verso casa ricomincio a macinare pensieri e a scorrere ricordi. Elisabetta. Elisabetta… Ho conosciuto un’Elisabetta diversi anni fa. Aveva gli occhi chiari. Entrambi eravamo stati invitati dal parroco a un ritiro per i giovani presso un convento dei cappuccini sui monti di Genova. Ho un bel ricordo di quella domenica, del clima che si respirava, dei giochi. Aveva 17 anni. Io ne avevo 26. Sono passati otto anni. Ma sarà davvero lei?

«Ciao don! Il controllo è andato bene. Ascolta, volevo chiederti una cosa: hai notizie di Elisabetta F., quella ragazza che era venuta al primissimo ritiro dei giovani il 2 dicembre del 2012?»
«Che io sappia era andata via (scappata?) dalla famiglia affidataria, ma provo a domandare».

Nel frattempo ricordo anche il cognome e la cerco su facebook. La trovo. La foto profilo è di due anni fa, ma è evidente che si tratta della stessa persona.

Arriva la risposta dell'(ex) papà affidatario: ne hanno perso le tracce. Era tornata a vivere con i suoi. L’hanno vista mesi fa in centro.

Il don mi propone una preghiera per lei. Sì. Ok. Se la incontro di nuovo, però, le offro almeno un caffè e le chiedo se le va di parlare un po’. Tutto ciò di cui abbiamo bisogno è essere ascoltati… e guardati con umanità.

3 thoughts on “Storytelling – Sliding Memories – Ricordi scorrevoli

    • Ciao Noemi! Di niente :) Grazie a voi per l’ospitalità (stavo notando che non si visualizza il mio nome sotto il titolo, ma sarà qualche bug strano). Ho ripreso a camminare per Genova, ma Elisabetta non l’ho ancora incontrata di nuovo.
      A presto!

  1. Ciao Abattoir, a circa un anno di distanza torno a scrivervi perché ho un aggiornamento da condividere con voi. Ho incontrato Elisabetta poco meno di due mesi fa, non lontano dal luogo in cui l’ho vista quando ho scritto il racconto.
    Stava chiedendo delle monete a una signora.
    Mi sono avvicinato e le ho chiesto: «Scusa, sei Elisabetta?»
    «Sì?! Mi chiamo Elisabetta»
    «Io sono Gabriele. Magari adesso non ti ricordi, ma io sì. Ci siamo incontrati circa un anno fa. E ci eravamo già incontrati circa otto anni prima»
    «Davvero? Non ricordo. Aiutami a ricordare!»
    «Ti ricordi di un ritiro per i giovani a San Barnaba? Dicembre 2012? Eri stata con noi mezza giornata, poi sei andata via. Di mattina avevamo fatto dei giochi. Avevamo giocato a sardina, ci eravamo divertiti. Tu ti era persa in giardino, io ti avevo ritrovata e avevamo cercato gli altri insieme»
    «Forse mi ricordo. C’era don Nicolò?»
    «No, c’era don Paolo. Comunque, come stai? La casa?»
    «La casa, eh… Ho una stanza da una persona, però… ho bisogno di trovare lavoro. L’ideale sarebbe qualcuno che mi desse vitto e alloggio, facendomi lavorare anche gratis. Se conosci qualcuno…»
    «Ok. Posso chiedere.»
    «Ascolta, Gabriele, forse oggi sei il mio colpo di fortuna. Devo comprare una crema per le mani in farmacia, ho una dermatite, ma non mi bastano i soldi. Mi puoi aiutare?»
    Ho guardato le sue mani. Aveva come delle piccole croste.
    «Ma come te le sei fatte? Comunque sì, ti aiuto.»
    «Posso dirti un’altra cosa? Però allontaniamoci un attimo, perché mi vergogno.»
    «Sì, certo. Dimmi.»
    «Ho il ciclo e mi sto sporcando tutta. Devo comprare gli assorbenti»
    «Va bene. Ho capito. Fammi prelevare, ché non ho soldi, e ti do qualcosa»
    «Grazie!»
    «Come faccio a farti sapere per il lavoro?»
    «Mi puoi lasciare il tuo numero, per favore?»
    «Sì, per me va bene, ma tu non hai…»
    «Io non il telefono…»
    «Sì, appunto».
    «…ma ti faccio contattare stasera da un mio amico, così ci sentiamo. Magari un’altra volta ci prendiamo un caffè.»
    «Va bene, ma non ho carta e penna.»
    «Chiedo qui in albergo!»
    Entra nell’albergo accanto ed esce con un foglio e una penna.
    Scrivo il numero e le do il foglio. Mi ringrazia e riporta la penna in albergo.
    «Grazie mille»
    Mi dà la mano e ci salutiamo.
    «Un bacio, a presto»
    «Un bacio a te. Stammi bene»
    Non l’ho sentita e non l’ho più incontrata.
    Alla prossima, spero.

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