Stress

di Lorenzo Santetti

Inizio a scrivere questa pagina dopo l’ultimo scambio di chat che ho avuto con una persona che, teoricamente, dovrebbe contribuire alla mia formazione professionale. Chi mi conosce sa che rapporto conflittuale io abbia con la mia supervisor. Sto seguendo un percorso di dottorato e sapevo che la strada che ho deciso di intraprendere non sarebbe stata la più semplice tra quelle che mi si prospettavano davanti, ma ritenevo che questa fosse la più stimolante e al diavolo le difficoltà che si possono incontrare! La vita si sa è difficile, ma difficile non deve significare stress, rammarico e frustrazione. La difficoltà è definita come un ostacolo verso il conseguimento del proprio obiettivo ed un ostacolo dovrebbe stimolarci a fare del nostro meglio per superarlo. La vedo così, la difficoltà: come un invito a dare del nostro meglio per diventare una versione di noi più resistente, flessibile e adatta alle circostanze.
Tutto questo preambolo nasce dal fatto che nell’università italiana questo non avviene. Sono numerosi i casi di studenti che si suicidano a causa dell’inutile stress che si genera negli atenei italiani. Uno stress che spesso si può ricondurre a due principali fattori: i) un sistema universitario progettato per monetizzare e non per formare, ii) una pletora di professori il cui scopo pare non sia l’insegnamento quanto l’umiliazione. L’ho già detto, non voglio che l’università sia un diplomificio in cui chiunque si iscrive riesca a conseguire la laurea. Senza addentrarsi in discorsi sociologici – per cui le opportunità e le risorse della famiglia di origine contribuiscono in maniera prepotente alla possibilità che una matricola si iscriva o completi un percorso di laurea – è chiaro che non è possibile che chiunque possa laurearsi. Questo non significa che non avere la laurea sia un’ignominia. Altro discorso è rendere assurdamente difficile il percorso universitario, e soprattutto gli esami. Quanti ci hanno raccontato di umiliazioni subite da colleghi? Io stesso ho assistito più volte a scene surreali in cui un professore caccia in malo modo uno studente.
Quando mi sono candidato e ho vinto un posto come dottorando, mi ero probabilmente illuso che le cose sarebbero cambiate, che stavolta lo stimolo sarebbe veramente diventato il leitmotiv di questo percorso. Ad oggi continuo a subire umiliazioni, svalutazioni dei miei lavori precedenti e non riesco a trovare stimoli a proseguire un percorso che ho fortemente voluto, ma che non mi sta dando alcuna soddisfazione. Mi sento prosciugato della mia curiosità, mi sento incapace di affrontare la benché minima difficoltà, privato dei miei stimoli. Non ritengo di essere speciale, ma nemmeno così incapace come mi sento nell’ultimo periodo. E non mi capacito del perché il sistema universitario italiano riesca ancora a produrre ambienti così tossici in cui le persone non riescono ad esprimersi. Perché in Italia è ancora radicata la credenza per cui è giusto che un ambiente di lavoro debba essere duro e stressante e non quella per cui si possa essere esigenti anche senza umiliare una persona? Perché non si abbandona questa lotta fratricida fra colleghi, perpetuando una cultura del lavoro fatta di umiliazioni e di paura? Forse perché siamo ancora ancorati ad una eccessiva formalità arcaica per cui esistono superiori e non responsabili?
Non so darmi una risposta, vorrei riuscire ad aprire un dibattito che permetta a questi temi di venir fuori e di essere raccontati, per provare a creare una società un pelo migliore di questa.

9 thoughts on “Stress

  1. Non è questa la sede per condividere alcune situazioni che mi sono trovata a vivere. Ogni sera, però, per un certo periodo di tempo mia madre mi ripeteva: non vai mica in guerra… ed io non sono una persona che è stata con le mani in mano fino a quando le è giunta una possibilità lavorativa “buona”. Di lavori ne ho svolti molti, non tutti i miei colleghi erano simpatici, ma ho conosciuto una grande varietà umana. So cosa vuol dire umiliazione. Ma so anche che a studiare studiavo perché non avrei potuto rinunciare e a lavorare andavo perché avevo una missione, un progetto e bruciava più la sensazione di tradire i miei studenti che l’umiliazione che qualcuno voleva somministrarmi.
    Panta rei. Te lo dice una che ha sognato di essere a margine di un rastrellamento nazista in un campo di grano, in cui le persone erano la superficie su cui si scagliavano i colpi di mitragliatrice e che ha pensato “l’unico modo per riuscire a salvare qualcuno è stare quanto più possibile aderenti al suolo e allontanarsi per avvisare di questa carneficina”. So che quel che mi rimane, è la certezza di aver lavorato e studiato con onestà. Penso spesso che avrei potuto forse essere migliore, più serena e produttiva, più astuta, ma la stanchezza a volte, una la sera non riesce a togliersela di dosso come vorrebbe. Ora che cerco lavoro, avendo rinunciato alla possibilità che ad altri farebbe gola, mettere in un CV le date di inizio o fine dei singoli rapporti professionali mi procura orticaria e smarrimento. Almeno fino a qualche settimana fa, quando una persona mi ha detto: “Tutte queste cose che hai fatto, dove sono sul CV”? Ed ho capito, che la differenza è proprio in questo. Ciò che ho fatto. Ed ho iniziato a riscrivere la storia del mio percorso. Dove prima ero generica perché non amavo ricordare, ora ho cercato d’essere sintetica per spiegare il progetto che mi animava: la cura dei ragazzi. Proprio perché so cosa è un’umiliazione. Non ha alcuna importanza se e quando troverò un lavoro, non mi sento “povera” perché ho dato e avrei dato di più se avessi potuto. Non perché non ami lo stare a guardare il mare da uno scoglio, ma perché amo dare, incoraggiare le persone, condividere, aiutare a crescere.
    Cerca lo scopo del tuo percorso attuale in ciò che ami spontaneamente, in ciò che risveglia la tua curiosità, il tuo interesse, le tue qualità migliori. Ci vuole poco a ricadere in un baratro e se mi esprimo così forse è solo perché ora sono “a riposo”. Ma se fossi a scuola, malgrado tutto, ad uno studente amareggiato, deluso, umiliato, trascurato, direi le stesse cose; metterei da parte per pochi minuti il fardello quotidiano e lo porterei in un laboratorio o anche appena fuori dalla porta dell’aula a cercare insieme di riprendere in mano se stessi, attraverso la lettura, la scrittura e l’applicazione lucida e serena delle proprie capacità. Sii con te stesso il maestro e la guida che vorresti avere e come qualcuno mi esortava in Sicilia, “futtitinni”. In bocca al lupo.

    • Wow, sono colpito dalla profondità di queste parole.
      Credo anche io che alla fine siamo nient’altro che la somma delle esperienze che abbiamo vissuto e che niente e nessuno debba sminuirci per questo.
      Forse hai ragione, è dentro di noi che dobbiamo ritrovare la curiosità e la scintilla che ci guida. Al grido di “futtitinni” ovviamente :)

  2. Credo ci sia tutto un filone teorico su come “comandare” (senza trattore in tangenziale). Lo dico perché, una volta lavorando in uno stand di caramelle per una fiera, la mia capa (imprenditrice improvvisata per una botta di culo e furbizia) aveva in borsa un libro tipo di self-help intitolato “come essere un buon capo”. ‘Sta stronza ci faceva le visite a sorpresa, non ci faceva sedere, ci pagava in base a ciò che vendevamo (senza avviso previo), ci umiliava nei più strambi modi possibili… (Ovviamente con me c’era un rapporto di amore-odio perché io ero la resistencia! Veniva lei e io mi sedevo a fumare guardandola e dicendole “ho appena fatto una vendita di 52 euro di caramelle che ne valgono 3, mi merito pausa”).

    La gente non riesce a farsi rispettare come vorrebbe, come capo autoritario, vedi il Diavolo veste Prada. Il problema però è che la maggior parte di questi capi non hanno nemmeno un capello in comune con Miranda Priestly che era un geniaccio, loro sono pedine di un sistema che ha fatto sì che raggiungessero l’apice non per merito ma per essere figlio di, raccomandati da, pagato mazzetta a, eccetera (ovviamente ci sono le eccezioni, ne conosco un paio, e per queste tanto di cappello).

    Ho avuto la fortuna/sfortuna (non saprei dire) di lavorare in un’agenzia marketing per organizzazioni umanitarie, organizzata in team col capogruppo che gestiva delle persone “sotto di lui” e a sua volta gestito dal capo zona. Tutti avevano la possibilità di crescere: il capogruppo era inizialmente un membro base della piramide, così anche il responsabile di zona ecc. Ogni mattina si facevano delle ore di training motivazionale. Può sembrare una cosa Hippie ma il mio capogruppo era il mio capo ed anche il mio amico, io lo rispettavo e gli chiedevo consigli, non ho mai messo in discussione la sua autorità né la sua parola, in quanto per arrivare a gestire un gruppo si era fatto la gavetta e quindi sapeva di cosa parlava.

    La gente prova piacere ad essere sadica. Vedi esperimento della prigione di Stanford.

    • Come diceva Napoleone: “Ogni soldato semplice ha nello zaino il bastone da generale”. Quando hai davanti persone che ci tengono al gruppo che lavora “per loro” vedi i risultati.
      Lo vedevo quando stavo all’ufficio Unesco. Infatti l’allora responsabile si rivolgeva come appunto persona responsabile delle persone con cui lavorava. Quando invece si sottolinea e fa giocoforza sulla posizione di superiore su un subordinato allora c’è un problema

  3. Caro Lorenzo, grazie! Lotto molto per questa visione, spesso abbiamo interiorizzato le logiche di potere con cui poi colludiamo senza accorgercene. Ne ho scritto su Abattoir e qui: Venturella N. (2018), “Il lavoro nobilita l’uomo”, “…se questo è un uomo”. Un progetto di intervento per i professionisti delle relazioni d’aiuto, in in Plexus-Rivista del laboratorio di gruppoanalisi, vol. 19, Luglio 2018, pp. 62-83 – website: http://www.rivistaplexus.eu/index.php/plexus . Sono estremamente interessata al punto di vista diverso ma non distante di un economista, scambiamoci conoscenze!!!

Rispondi a LorenzoAnnulla risposta

Questo sito usa Akismet per ridurre lo spam. Scopri come i tuoi dati vengono elaborati.