Seaspiracy – come possiamo salvare il mare

Da qualche giorno Netflix, che forse un poco mi conosce, mi proponeva il documentario Seaspiracy, un documentario che risponde alla domanda “Esiste la pesca sostenibile?”, ma ancora prima “Cos’è?”. Ne avevo letto il titolo e poco più sui social, ma non avevo approfondito riproponendomi di vederlo senza il pregiudizio delle opinioni altrui. Così mi sono deciso a premere play non appena Netflix ha pubblicizzato Seaspiracy. L’idea di assistere alle scene cruente che questa tipologia di documentari mostrano non mi faceva impazzire, rimango disgustato e amareggiato per giorni, ad ogni modo credo che scoprire, seppur con sofferenza, la realtà corrisponda ad assumere la pillola rossa di Matrix, svegliarsi dal letargo del tram tram quotidiano, lontano dai fatti che avvengono in tutto il mondo a nostra insaputa. Il masochismo di tenersi informati su scomode verità.

Il documentario racconta di questo documentarista, Ali Tabrizi, da sempre innamorato del mare, che da bimbo aveva idoli come Jacques Cousteau al posto di Batman e applaudiva entusiasta agli spettacoli dei delfinari. Ovviamente quel bimbo ignorava la crudeltà dietro all’apparente festosità dei delfini ammaestrati, e lo si può comprendere, ma una volta cresciuto il documentarista ha scoperto il dietro le quinte di un mercato crudele. La sua passione per i delfini l’ha condotto ai luoghi di cattura e caccia in Giappone, ha seguito la traccia lasciata dai soldi chiedendosi quanto può costare un delfino catturato e quali interessi economici ci sono in ballo. Durante il suo viaggio ha però scoperto che la cattura dei cetacei era la punta dell’iceberg, le uccisioni erano di gran lunga maggiori. Perché uccidere un delfino se vivo vale centinaia (o migliaia) di euro ? Ancora una volta il denaro è la risposta. Il reporter seguendo gli interessi economici ha scoperto che i delfini sono visti dai pescatori come dei concorrenti dei pescherecci, un delfino mangia infatti 5-6 Kg di pesce al giorno, un branco è un antagonista da sterminare.

Non voglio anticipare troppo riguardo al reportage, ma la cosa che mi ha colpito di più è che ad ogni incursione, quando sembrava di essere arrivati al nocciolo del problema di salute del mare, il reporter scopriva che dietro un problema si celava un problema ancora più grande e meno noto, problemi le cui cause sono legate tra loro dal filo d’Arianna “denaro” e coperti da multinazionali. Un altro esempio? Si parla tanto di microplastiche e inquinamento dei mari, ma lo sapevate che la maggior parte dei rifiuti plastici derivano dalle reti e da altri rifiuti rilasciati dai pescherecci? Come mai si parla solo delle cannucce di plastica, causa d’inquinamento che “conta come il due di coppe quando a briscola comanda bastoni”? Persino alcuni enti ecologisti nascondono che la causa primaria dell’inquinamento dei mari è la pesca. Perché? La risposta è sempre “Per i soldi!”, perché questi enti sono spesso finanziati da aziende collegate direttamente o indirettamente alle multinazionali del pesce. Anche alcuni tra i marchi più noti per la pesca sostenibile o per la salvaguardia dei delfini, marchi visibili sulle confezioni di pesce confezionato sono fondati da chi fa del pesce il proprio business, cioè i certificatori sono loro stessi, come avviene già per l’olio di palma e altri prodotti eticamente non “puliti”. I marchi servono solo a ripulire la coscienza dell’acquirente che pensa, erroneamente, di preservare il mare i suoi abitanti e l’ambiente in generale, e gonfiare il portafogli dei produttori “etici”. Il conflitto d’interessi è chiaro, e proprio per questo molte ovvie risposte non possono essere date da chi rappresenta questi enti.

Ma mentre in mare avvengono questi fatti criminosi, questi furti di fauna, queste distruzioni dei fondali marini, scopro che mia figlia fra meno di 30 anni avrà più probabilità di trovare rifiuti di plastica in mare che pesci.
Io, munito di maschera e boccaglio, questa estate continuerò a raccogliere bottiglie e sacchetti che trovo in mare, ma viste le isole di rifiuti galleggianti grandi quanto la penisola iberica o gli USA mi sembrerà di spolverare il deserto del Sahara.

Ma allora cosa possiamo fare per salvaguardare il mare, la sua fauna e la sua flora (che poi è il vero polmone del mondo)? Esiste, ammesso che si trovi una definizione universale, la pesca sostenibile?
Guardate il documentario e troverete la risposta, anche se non vi piacerà.

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