Settembre e i miei Pappagalli

“Pappagalli verdi” di Gino Strada mi ha accompagnato nelle ultime settimane di riposo estivo. Quando stavo finendo le pagine, conscia di averne ancora bisogno, ho cercato anche gli altri libri scritti da lui, ma (per fortuna) erano esauriti e in ristampa. Potere della morte? Spero di no, ma penso di sì. D’altronde è il nostro vizio: troppo spesso ci accorgiamo depressivamente dell’importanza delle cose quando non le abbiamo più. Ma questa attitudine depressiva spesso non ci porta a migliorarci, bensì a ripiegarci, immobili, nel dolore.

In ogni caso… Per fortuna gli altri libri erano esauriti e in ristampa. Per fortuna, dico, perché nella ricerca ho visto che anche Rocco Casalino ha scritto un libro. Quindi, dico, una differenza deve pur esserci tra persone di spessore diverso. Senza magari (magari) nulla togliere a Rocco – per carità di Iddio! – ma già il mondo va abbastanza al contrario…

Pappagalli verdi”, comunque, mi accompagna verso lunedì, giorno della ripresa ufficiale del lavoro in studio. Mi accompagna con frasi e immagini di uomini feriti e menomati dalla violenza dei loro simili…. Come scrivevo qui, in modo diverso nei pre-colloqui estivi ho visto anch’io scenari di guerre sociali e familiari, soprattutto ragazzi schiacciati, inesplosi, esplosi, tormentati dai sintomi e saturi di sofferenza spesso inesprimibile. …Vivo una (pre)occupazione analitica per ciò che va accadendo nel mondo e per chi e cosa vengo ad accogliere io stessa in studio; così spesso mi lancio in grandi discorsi davanti alle birre con gli amici per condividere lo sguardo che oramai ho sul mondo e il dolore e la fatica che provo rispetto al (non) senso delle cose. A volte, però, nel farlo mi sento sola. Mentre in questi giorni in cui leggo Gino Strada mi sento consolata.

Per questo oggi, alle soglie della ripresa del lavoro, mi tengo strettissimo questo libro pieno di frustrazioni, di battaglie, di fatiche, di rischi e di perdite; libro pieno di complessificazioni, di sguardi binoculari e di accoglienze, ma anche di scontri coi propri limiti e di accoglimento degli stessi: “I valori etici possono nascere solo da una prassi di vita che si misura coi limiti, le passioni, le paure, le ritrosie, l’esasperazione del procedere alla ricerca di sé, nell’altro da sé” (Moni Ovadia in prefazione). Libro soprattutto pieno di una morte “che diventa condizione di vita”, quella morte insensata che ci dovrebbe motivare alla qualità della vita, alle battaglie per la vera vita.
C’è un passaggio a pagina 123 in cui un comandante mujaheddin afgano, “ex-guerriero gettato all’improvviso nella miseria del mondo reale”, vive in ospedale in estasi da hashish, ignaro del senso della guerra che lo ha mutilato. Penso all’articolo di Saviano sulle reali motivazioni tossico-economiche della guerra in Afganistan. Provo rabbia, il 90% di vittime, dice il mio libro dell’estate, seno civili, soprattutto donne e bambini. Questo è il mondo reale! Allora per far capire bene non solo ai cattivi, ma anche a noi buoni che stiamo dietro di loro, il libro parla di guerra in modo crudissimo, sfacciato, dai bambini con i pezzi di cervello fuori dalla testa ai vecchi con l’intestino gettato fuori dalla pancia dalle schegge di mine. Come è possibile pensare e pronunciare parole come “ma lo sapete che i pappagalli verdi sono mine dalla forma invitante e mimetica, disseminate appositamente per attirare i bambini? Così si stronca il futuro di un popolo, ovvero quel popolo tanto odiato, alla radice…”. L’ho detto, e ha fatto schifo come quando l’ho letto. E’ l’assurdo. Eppure in questo libro e nella realtà Emergency offre cura sia ai “mostri” che ai “creatori di mostri”. Il mondo è complesso, l’uomo idem. Io d’altronde non offro cura ai Santi e ai martiri, ma a tutti: bulli, ladri, cleptomani, disonesti, traditori seriali… Forse dovremmo chiederci più seriamente se il dramma del vivere sono i “mostri” o i “creatori di mostri”, e chi sono davvero questi ultimi qui e cosa possiamo fare per loro.

In ogni caso… “Pappagalli verdi” mi accompagna verso la ripresa ufficiale del lavoro in studio perché già in apertura, con la domanda: “Cosa vorresti fare da grande?”, mi ricorda che io da grande volevo fare la psicoterapeuta; lo sapevo già dai 12 o 13 anni, forse anche prima. Ci sono mille motivi per fare questa scelta; Carotenuto i miei li esprime benissimo:

“…Sicché la tua scelta è proprio tua; nasce da un tuo bisogno antico, precocissimo. Non è un’offesa o una violenza, ma qualcosa che ti è stato negato – che agli albori della vita è la violenza più devastante; una lacuna, un vuoto, la mancanza di un elemento essenziale nella tua dieta affettiva – per esempio della presenza costante e avvolgente di una figura materna che ti desse l’idea o l’illusione di essere sul serio l’ombelico del mondo o almeno del suo mondo. Insomma un non-evento della tua personale preistoria, che però ha lasciato una traccia indelebile nella tua personalità allora in formazione. Non una cicatrice ma una ferita ancora aperta, non rimarginata. Ma tu sai, caro il mio apprendista stregone, che a proposito di quella ferita io mi servo volentieri di un gioco di parole, peraltro assolutamente legittimo sul piano etimologico: è una ferita ed è una feritoia, un minuscolo varco che ti consente di tenere d’occhio il tuo mondo interiore, di scrutare e indagare la parte più misteriosa e segreta di te stesso, la parte sommersa…” (Carotenuto A., 1998, Lettera aperta ad un apprendista stregone).

Con me porto questo libro perché oggi che ho realizzato uno dei miei sogni (essere una psicoterapeuta) e che sento la responsabilità, la meraviglia e la fatica di questo mestiere, sono fiera di non dimenticare che esso per me consiste anche “nel far sì che gli individui apprendano ad essere cittadini, che una volta usciti dallo stato di paziente abbiamo acquisito un’auto-coscienza ed una consapevolezza tale da essere ora finalmente capaci di relazionarsi con se stessi e con gli altri in una forma basata sulla fiducia verso se stessi e gli altri, sull’altruismo attraverso cui rispecchiarsi negli altri e sostenerli e sulla democraticità come riconoscimento degli altri CITTADINI come loro”.

Ognuno di noi ha i propri dolori, i propri bisogni. Ma questo non ci dovrebbe portare a costruire rinascite utopiche sopra i cadaveri, sopra i corpi sofferenti degli altri, attraverso le guerre e i crani squarciati, che sia all’occidentale (guerre psichiche silenziose) o negli altri modi descritti dal libro.

Quando dicevo che da grande volevo fare la psicoterapeuta a quanto pare ero seria, e così oggi, in mezzo a un mondo sociale occidentale fatto di benessere e di guerre sottili e distruttive interiorizzate, non mi tiro indietro: lunedì torniamo in trincea in mezzo alla sofferenza e (anche se non so se avrei il coraggio di farlo davvero tra le bombe) alle guerre interne ed esterne. …A volte qualcuno esclama che se la gente sta male noi psicologi guadagniamo. Ma io dissento, sdegnata e forse tracotante: io davvero non riesco a vederla così, per molti motivi. Tra tutti, poiché forse ho un’anima filo-umana e so di vivere e soffrire nello stesso mo(n)do dei miei pazienti. Perciò mi accodo al libro: anche io “Spero solo che si rafforzi la convinzione […]che le guerre, tutte le guerre sono un orrore. E che non ci si può voltare dall’altra parte, per non vedere la facce di quanti soffrono in silenzio” (G. Strada).

Buon settembre!

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