Cheyenne

di Dora Pistillo

“Aspetti, ora che ha sistemato l’ago e che ha controllato il flusso del farmaco, attenda un attimo. Prenda due minuti di tempo, finga di controllare qualche parametro ancora. Ho visto il suo sguardo sulle cose, come dissimula ciò che sente dentro, davanti ai colleghi…
Conosce la sindrome di Stendhal? Il ginocchio dipinto in un’opera d’arte, una punta di colore che emerge da un piano altrimenti silenzioso, piccoli particolari richiamano qualcosa che ancora non è digerito. Personalmente, la condensa su una parete di vetro di una piccola serra contenente una giovane pianta di limone (i frutti appena abbozzati, ma in crescita e con un giallo tenue capace di prender vigore), ha sconvolto parecchio e a lungo la mia vita.

L’arte, mia giovane amica, è uno spazio – raum, direbbero i tedeschi – per mettere in comunicazione oggetti parlanti e soggetti tacenti. I soggetti li chiamiamo persone, perché indossano una maschera; essi vivono ed elaborano di continuo dati utili alla permanenza e all’equilibrio psico-fisico in un’esperienza che è anzitutto sensoriale, perché i sensi sono le porte, i pori, i fori in cui si incontrano l’intelligenza e il mondo fuori dal nostro sistema, dal nostro microcosmo, dal nostro piccolo ordine… Allora balza alla memoria un brano di un compositore. Ci dice che la sua preparazione, adatta a spartiti di primordine, si rivela curiosamente con un mezzo apparentemente popolare. Un fischio umano. La malinconia, la tristezza, il rimpianto, il rammarico, la speranza di qualcosa di buono intravisto e che si è capito non si potrà avere. Tutto scandito da un ritmo. Come zoccoli trascinati nella polvere, come scarpa improvvisamente rotta che modifica il passo; qualcosa che malgrado l’asprezza diventa insopportabilmente dura da lasciare. Qualcosa che viene trasportato via dal vento, come la polvere in un giorno afoso e difficile da respirare, fino ad un istante fa. Fino a un momento fa, quando si è realizzato che non ci sarebbe stato altro. Ed il nostro ultimo respiro se l’è portato con sé il vento.
La malinconia di una domenica in cui è epifania – attraverso il silenzio nelle strade, nella lentezza dei movimenti, negli spazi vuoti, nel riposo forzato – che qualcosa lo lasciamo sempre indietro, fino a quando non possiamo evitare che ci si ripresenti con il conto in mano. Ed il conto in mano è un foglio bianco con solo una cifra, quella che stentiamo a mettere a fuoco, ma che brucerà la nostra anima se non la raccogliamo. Qualcosa che somiglia ad un motivo fischiettato, irritante franchezza che ci spiattella in faccia la realtà. Abbiamo perso tempo a rincorrere il caos, illusi e accalappiati dalla frivolezza di specchietti luccicanti, e non abbiamo mai preso in mano l’unica cosa che davvero ci eravamo ripromessi di curare.

Dia retta a me, Signorina. Lo dico dall’abisso in cui mi gettano la mia età e – soprattutto – la mia esperienza; si fermi. Si fermi un attimo. Respiri a fondo. Non importa quali siano le sue colpe vere o presunte, i crimini per cui si flagella dalla più tenera età. Saranno cose di cui riderà, e sarà un riso amaro – mi creda – se non agirà. Il non aver preso per mano sé stessa, il non essersi condotta in tempo ad un altra spiaggia, questo sarà ciò che la getterà nell’oscurità profonda del dolore.
La mia fine è prossima, ma il sintomo che mi porta via dice di me e voi non ascoltate, credete si tratti “solo” di me, ma – invece – si tratta di voi. È un monito, Signorina, memento mori. Goda di sé stessa, del respiro, non si dimentichi in un angolo a prender polvere. Si perdoni… Viva!”.

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