Qual è il senso

L’ultimo mese è stato difficile. Non scrivo da un po’ e mi sembra che non posso che riprendere da ciò che mi ha tenuta lontana. Esattamente un mese fa, infatti, ho avuto un lutto importante e siccome il lutto non finisce – soprattutto non a stretto giro (non nel senso psicologico del termine, almeno) – ho preso del tempo da tutto e adesso mi sembra di non sapere come continuare. Oggi è, per me, sia complicato (“pieno di pieghe”) che complesso (“intrecciato con molti aspetti”) e penso che dovrò accettare che queste parole saranno lagrimose. Ma va bene, perché il lutto ha a che fare col tempo che ci vuole per piangere e lavare via, con il sale che secerniamo (il nostro sale sulle nostre ferite interiori), il dolore, accogliendo poi ciò in cui esso si trasforma.

Ancora io sto nel mezzo: piango il mio nonnino che ci ha lasciato ed è difficile dirlo, non perché è inaccettabile che un uomo a 94 anni possa andar via, ma per me, per ciò che per me rappresentava lui: Tanto.
L’ho salutato scrivendo parole semplici con tripli e quadri significati che sento di condividere anche qui per motivi che in seguito spiegherò:

« – “Nonnino, mi vuoi bene?”
– “Certo gioia, chi ven’a’ddici…”.

Da dietro la mascherina, le mascherine, fino a 3 giorni fa…

Oggi piove dentro di me.
Ho paura di non sopportare la mancanza delle tue mani incredibilmente veloci che affilano coltelli, preparano involtini perfino con la fantasia, stringono le mie mani… Fino a 3 giorni fa.
Stanotte ci mancavi e con Luigi e i cugini ci raccontavamo di te, dei tuoi primi complimenti a 12 anni col parrino Rizzo mentre il capo-chef dormiva, di come eri con noi da nonno…
Ti cercavamo…. Così abbiamo aperto, dopo anni, uno dei tuoi scrigni segreti, famosa tra tutti gli amici: la vetrinetta del salone, dove nascondevi preziosi arnesi da cucina, mille polsonetti, fruste, schiumarole, Coltellini, liste di ogni cosa, la ricetta dei Rigatonelli agli odori, posate, medaglie, videocassette, foto, e nonna sempre. Ti cercavamo, ma eri già dentro di noi…

Vorrei poter accarezzare sempre le tue morbide orecchie-cotoletta, ascoltare il mio soprannome di adolescente, “Malifà” (che “una ne pensa e 100 ne fa”), sentirti chiamare “Rita! Le Pianelle!!!”, riavere il pulmino nocciola con cui partivamo da piccoli (e tu guidavi per noi fino a Gardaland) , riascoltare le narrazioni mitologiche della tua reazione alla mia nascita per via dei miei capelli tesi, e le urla (mitologiche pure loro) dalla cucina del ristorante, ridere insieme sui Baffi disegnati col pennarello indelebile alla zia Irene che dormiva…
E va bene pure ricordare gli errori da cui imparare e l’orgoglio che ho sempre avuto per te, per cosa hai fatto e per come é arrivato a me e mi ha reso – per vie traverse o dirette – chi sono.

Tu
Sei la mia Istituzione.
Mi hanno insegnato che la parola “istituzione” contiene il concetto di “permanenza”.

E così é per me. …In ogni soffritto, in ogni viaggio, in troppe musiche. Nel Piacere del fare e nell’etica del lavoro. Quando cucino 3-4 ore perché sono seccata o creativa. Ci sei e ci sarai. Nei babbaluci che raccoglievamo tra le spine a San Vito. …San Vito! Il barbone! Le estati tutti insieme…!

…Ci sono tornata, nonno, ma era tutto diverso. E così é da oggi per me.
Ma tu resti con me, perché é così che non può che funzionare.
Perché, come vedi oggi, ci si lascia sempre dietro qualcosa che “influenza gli altri per anni, persino per generazioni […] proprio come i cerchi nell’acqua di uno stagno” che “continuano a svilupparsi finché non sono più visibili, anche se il movimento continua a livello impercettibile”… “Una trasmissione silenziosa, gentile e immateriale che si attua da un individuo all’altro” (Yalom I., 2017).

Grazie. Ti amo.»

Vi chiederete perché condivido così tanta intimità. Forse ultimamente Abattoir è diventato uno di quei blog anni ’90 inti-misti? A tratti magari, dato che la nostra psiche rappresenta pure il mondo sociale che viviamo e ne sa parlare col linguaggio che le è proprio. Ma c’è di più.

Con questo scritto, condivido il valore evolutivo del mio lutto. Con esso, mi impegno a ricordare e tramandare la bellezza che nonno mi ha insegnato; a lasciare andare e a prendermi cura delle cose senza ricorrere a vittimismo e lacrime (suoi difettucci); invece di rimuovere la paura della morte come ha fatto lui per tutti i suoi anni, mi impegno ad occuparmene (e ringrazio per questo chi mi è stato vicino – tantissimi! Segno che si conosceva il mio amore… – e anche Abattoir che mi ha atteso); e mi impegno a coltivare in vita affinché qualcosa resti indistintamente per tutti, senza lotte, guerre e invidie ataviche… ho scelto un lavoro che mi consente di farlo, al di là del mio nome e cognome.
Ancora, condivido quello scritto perché nel mio dolore e nelle parole che ho dedicato a mio nonno c’è il destino, c’è ciò che ce ne si può fare della propria vita e di questa fetta della vita che si chiama “morte”, c’è la speranza del cambiamento, della vicinanza, di NON ripetere gli errori. Lui, infatti, non era perfetto, anzi. Io stessa ci ho litigato tantissimo, come ogni adolescente che viveva con un padre putativo sa fare. Non era un uomo troppo coraggioso (i topi e le decisioni importanti pare che li abbia sempre affrontati la nonna), ma era una istituzione in molti modi. Era, inoltre, una persona famosa; non se ne “allattariava” troppo, ma lui aveva inventato l’Alì Pascià e cucinato per il Papa e vari, così i giornali hanno parlato di lui in passato e hanno parlato anche della sua morte. In mezzo ci siamo stati noi, tutti noi; e quello che è significato una vita di lavoro e di sacrifici per costruire case a tutti i figli, regalare e aiutare. Forse troppo (forse ci voleva più “esserci”). E forse proprio per questo, dopo le lacrime (troppo poco tempo dopo le lacrime), si parla già di altro. Ciò che è seguito in buona parte a questo mese di lutto è stato infatti un modo tutto istituzionale di stare con ciò che segue al morire: un modo che allontana dalle parti evolutive di esso.

Per questo sono arrabbiata: perché nel mio scritto, nel mio dolore, nel mio periodo, c’è tutto questo e molto di più, ma la burocrazia dello stato italiano e del suo seno (= le famiglie e ciò che le muove) NON ci consente di occuparci del lutto perché ci è stato insegnato sotto & sopra soglia che dopo la morte bisogna occuparsi di atti notori, successioni, potere, avvocati, conti correnti, ciò che resta, ciò per cui si deve litigare sotto & sopra soglia. Invece di imparare dagli errori, dalle nostalgie. Invece di restarsi vicini e pari. Invece di coltivare gentilezza e rispetto, al di là dell’emergenza. Invece di occuparsi di chi resta, di osservare e accogliere cosa resta in una eredità affettiva e mentale… Mettiamo in scena balletti economicisti miseri e puzzolenti.

E il fatto che la cultura dello stato italiano e del suo diretto seno (= le famiglie e ciò che le muove) non ci consenta di occuparci del lutto, di piangere e di soffrire INSIEME quanto è necessario perché bisogna spicciare le questioni economiche correlate o ti si in****… beh, questo è un fatto sociale e non intimo!

Per oggi questo sono (anche) arrabbiata. Perché il lutto, cari miei, è un rito di passaggio, è un processo che deve durare nel tempo (le fasi della Kübler Ross ne narrano il fondamentale srotolarsi interiore) e insegnare delle robe che hanno a che fare con la crescita umana (non con la salvaguardia del capitale!). Invece oggi pare che ci sia tutto, spesso, tranne che cura e tempo e “apprendere dall’esperienza”. Il lutto è un atto NON puntiforme che insegna il valore della “perdita”, il valore di alcuni pezzi di noi (pezzi del nostro passato, dei nostri sogni, progetti e ricordi, della nostra interiorità). Se ci concediamo di interrogarlo – invece di essere spinti ad arraffare e a tutelarsi – il lutto ci insegna che siamo esseri incarnati a tempo determinato; che il nostro orologio è limitato; e che tutto genera conseguenze. La morte è severa, ma insegna. Per assurdo, spinge a riflettere sulla vita, porta a chiedersi per cosa vale la pena vivere, aiuta a capire cosa conta veramente e a chiedersi QUALE SENSO vogliamo dare a noi stessi e ai nostri giorni. Perché noi “Siamo ciò che facciamo di ciò che gli altri hanno fatto di noi” (J. P. Sartre).

Vorrei potermelo consentire e lo auguro a tutti, ma diciamoci anche che alla cultura di oggi ciò non piace, che gli obiettivi macro-sociali non sono quelli di farci porre questi interrogativi. Per questo, la mia riflessione ha valore politico (e per questo sulla morte abbiamo scritto un libro socio-politico) e per questo, probabilmente, questo articolo sarà letto fino alla fine da uno sparuto manipolo di eroi a cui va il mio grazie e il grazie, tramite me, della memoria del mio amato nonnino.

“Noi viviamo e moriamo. E le ruote della giostra continuano a girare.”

7 thoughts on “Qual è il senso

  1. Ciao Noemi, l’ultima frase, ripresa dal tuo eroico e affettuoso nonno, è, forse, la spiegazione a tutto. Nei giorni scorsi ho visto morire un caro collega, 44 anni due splendidi bambini di 6 e 3 anni … non sarà né il primo né l’ultimo, ma rende il concetto di morte ancora più evidente e drammatico. Personalmente mi ha sconvolto ma ha anche insegnato. Ci vuole tempo affinché si possa imparare a sopportare la giostra che gira, farsela piacere, accettarla così com’è. Accettare che prima o poi saremo noi a scendere, ed apprezzare con il cuore in mano, tutto il tempo, a volte poco, a volte tanto, che ci consente di aare persone speciali come tuo nonno. La sua frase è semplice ma spiega il senso della vita. Si nasce, si muore e la giostra continua a girare. Sopra quella giostra c’è tanta vita, tante delusioni, dolore, ma anche gioia, affetto e amore da trasmettere a chi ci sale su.
    Un grandissimo abbraccio.

  2. Fino a un anno e mezzo fa avrei letto queste tue parole con l’empatia di base, quella che ogni essere umano “normale” ha in dotazione per gestire i dolori altrui, ma con distacco, perché il lutto, più di qualsiasi altra cosa che può accaderci, è qualcosa che solo facendone esperienza diretta puoi avvicinarti a capire l’esperienza dell’altro. Io faccio coincidere la perdita della mia “innocenza” con la morte di mio nonno, che ho visto morire purtroppo, e mai nessuno si ê preoccupato di far diventare quel “piccolo morto dentro di me” un seme di rinascita. È rimasto dentro di me per 30 anni e forse l’ho liberato con la perdita, per me devastante, del mio adorato papà. È stato proprio come aprire una pentola a pressione, con tanto, troppo marcio dentro, un marcio che aveva alimentato il mio auto commiserarmi. Mio padre morendo mi sta salvando, sta facendo quello che in vita non era riuscito a fare, perché, ora lo so, era pieno di limiti, anche se lo vedevo come un Dio. Il senso, dici, e chi lo sa? Il senso lo capiremo dopo forse, camminando in queste nuove scarpe. Tralascio di mostrare troppa vicinanza alla tua rabbia per quel che viene subito dopo, non serve, fa troppo schifo vedere come si passa da questo a quello con quella facilità.
    Ti abbraccio e ti capisco, una volta tu mi hai scritto “siamo fatti per la morte” o una cosa del genere, mi pare che sia proprio cosí.

    • Grazie Ro, mi ha toccato il tuo commento, sento che mi capisci.
      …Mentre si sorride, mentre di va avanti, mentre si lavora… Ci sono cose che “cambiano i colori a tutto”. Sta a noi farne una bella tonalità… E ci si prova perché ne vale la pena ricordarli così (ecco il senso…): crescendo al meglio che si può, anche quando é dura o troppo pesante o quando mi manca molto.

      Stanotte l’ho sognato. Sorrideva. E sto un po’ meglio.

      Un grande abbraccio!

  3. Grazie a te. Bisogna talvolta lasciare andare l’acqua che scivola via dalle dita e godere delle gocce che rimangono nelle mani. Qualche goccia di tuo nonno la conservo gelosamente!

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