“The menu”, o del prezzo del vivere l’oggi

Ho degli amici che, per fortuna, mi insegnano sempre delle cose e mi guidano nelle scoperte. In questo caso, nella visione di “The Menu”, su cui abbiamo poi creato un piccolo dibattito.

Il film sta tra un horror e una commedia melo. E, in effetti, in “The Menu” si muore e si ride per la ridicolità dei modi in cui si vive e in cui si muore. Poi, manco a dirlo, colui che “pare” essere il protagonista è uno chef, il che mi dà occasione di rivivere parti del mio amato nonnino.
Si tratta, nel film – ma pure coerentemente coi miei ricordi personali -, di un cuoco stellato logorato dal suo lavoro o, nella fattispecie, dal sistema econocratico entro cui ogni lavoro si perverte e si trasforma da creazione a schiavitù volontaria. Mio nonno in effetti alla fine non amava più tanto cucinare; preferiva “desinare” (come diceva lui) sempre a casa con 30-50 grammi di pasta in bianco al dente + burro e parmigiano; la scarpetta col toscanino era l’immancabile lusso finale.

Nella vita vera come nel film, il protagonista delle vicende culinarie, dicevo, “pare” lo chef. Di fatto, direi che protagonista è un’umanità sofferente rappresentata dai commensali come dalla troupe del ristorante-da-incubo: soldatini perfetti di qualcosa che – vivaddio per la chiarezza con cui il film lo esprime! – conduce al “massacro” collettivo. Le telecamere inquadrano, ben de-umanizzati, sous-chef, fattorini e aiutanti votati al riconoscimento, al successo, alla perfezione, al controllo maniacale, al sacrificio, al dovere; e, per converso, commensali votati agli scatti, ai fallimenti relazionali, alle truffe, agli sfruttamenti, all’assenza di dialogo, all’alcolismo, alla prostituzione, alla perversione del nutrirsi.
La cena costa un occhio della testa, eppure a pochi interessa davvero l’arte culinaria, quanto l’experience, la foto instagrammabile, il pour parler, l’apparenza danarosa e pubblicabile da dare in pasto alle home page. Per qualcuno (la critica culinaria) c’è anche il potere di far fallire o riuscire intere vite.
Tutto orbita intorno al ridicolo e alla perdita del senso: c’è l’attore sborone che recita male e accetta copioni mediocri per far soldi che viene punito poiché, in una delle sue pochissime domeniche libere, lo chef ha perso tempo sul suo film scadente; c’è il giovane proselite ossessionato dalla cucina molecolare che assolda una escort pur di essere ammesso a una cena minimo X 2 pax; ci sono i concorrenti accomodatisi per criticare e per mostrare quanto siano fighi; c’è la truffatrice che ruba soldi al ricco amante e compra titoli di studio; ci sono il riccone fedifrago e la moglie passiva, incapaci di dar valore e parola a chicchessia; c’è la madre alcolizzata e c’è un leccapiedi incallito che ripete a pappagallo le parole della sua famosa milf. E poi, dicevo, c’è lui, Slowik, lo chef ex-bambino abusato e mai curato, con tutta la linea dei suoi collaboratori che gli risponde in coro obbedendogli disperatamente, in un corteo depressivo vorticante in cui c’è molto automatismo e zero vita vera: si dorme lì in camerate comprese di wc, si riposa 5 ore per produrre quanto più possibile con devozione, si sa che non si sfonderà mai la corte del successo ma che si vivrà per sempre questo simulacro di esistenza traumatica e traumatizzata… si pesca, si raccoglie, si macella, si trasforma, si cucina il creato per darlo in pasto a chi si accorge a malapena di star mangiando “interi ecosistemi” cui si è INcapaci di essere riconoscenti. Nessuno sa di cosa si sta nutrendo né cosa, nella vita, sia davvero nutriente. Nessuno sta a tavola per fare vita sociale. Nessuno si chiede “come ci siamo arrivati?”.

Ecco, quindi, lo scorcio di umanità fallita, violenta, trumpista e coi soldi che crede di essere davvero ben riuscita, invero autosacrificatasi sull’altare dell’Ego e dei neo-valori narcisistico-sonnambulici del finanz-capitalismo.

In questo senso, il film è assolutamente lineare: chiaro nelle sequenze, nel senso, nei dialoghi. La storia è talmente disperata e senza vie d’uscita che l’epilogo non può che essere “l’aver da morire”, poiché in fondo si è già morti e non lo si sa. E almeno nella morte c’è un limite allo sfacelo, all’infelicità sterile del produttivismo additivo. E’ un delirio depressivo collettivo, ma nessuna sorpresa; in questo, l’ho reputato onesto e giusto: la morte dice che non esiste esistenza vera o vero Sé se si vive una vita inautentica finalizzata a fare profitti; così, a questa esistenza inautentica il regista mette uno “Stop” inequivocabile: la fine, il “non si può vivere così”. E l’evidenza che solo l’oppresso può avvedersi delle possibilità di evadere da ciò, ma che spesso – proprio come in un sanguinario hunger game di quelli che fanno impazzire netflix o in uno di quei “travagghi-sfruttamento” che fanno suicidare giovani e capifamiglie -, resta lì a crepare. C’est la vie!

Alcune citazioni sibilline:
“La vita è pressione per produrre (il miglior cibo del mondo)”
“Il massacro: non c’è modo di evitarlo per soddisfare gente che non conoscerai mai! […] un tentativo di soddisfare chi non potrà mai essere soddisfatto”
“[…] fatto solo per impressionare. […] è una performance”

“Sono una puttana […], ma stasera tutto è puro, privo di ego, è finalmente sparito il dolore!”
“La libertà non può essere mai concessa dall’oppressore; deve essere reclamata dall’oppresso”.

Film onesto e puntuale, quindi, su come il funzionamento può colonizzare l’esistenza e su come diviene il contrario dell’esistere. Eppure il micro-dibattito post-film fa fatica a innescarsi esattamente come noi oppressi fatichiamo a liberarci – quantomeno col pensiero e con la collaborazione, col dialogo democratico e reciproco – dagli oppressori.
Film, insomma, che abbiamo inscenato in piccola parte con la difficoltà a parlare del vero senso delle cose e con un paio di protagonisti (soltanto) della scena/dibattito anche fuori dalla cinepresa; gli altri erano più degli osservatori. Mi chiedo se qualcuno se ne sia accorto, perché ciò vorrebbe dire che sì: magari poca, ma ancora c’è speranza e val la pena fare – come ha concluso il mio amico Marco – quel che si può!

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