Microfemminismi: rivoluzioni quotidiane

Iniziamo con le definizioni: i microfemminismi sono atti di consapevolezza quotidiana che scardinano gli automatismi del patriarcato. Sono delle pratiche giornaliere messe in atto attraverso comportamenti o linguaggio e capaci di produrre piccole crepe nelle strutture del sessismo radicalizzato. Certi comportamenti o parole vengono visti a volte come “esagerati” o stravaganti e il più delle volte ostracizzati e ridicolizzati. Soprattutto li in Italia, un paese tanto intriso di patriarcato che se vede peli sotto l’ascella di una donna si fa il segno della croce! 

Il non depilarsi quando non se ne ha voglia, ad esempio, è un microfemminismo: non per forza dobbiamo essere sempre schiave degli standard di “bellezza” imposti. Non è una ribellione né un atto estremo (so’ quattro peli porca miseria) ma un gesto di consapevolezza, una presa di potere sul proprio corpo che, a quanto sembra, è ancora proprietà dell’uomo o meglio della società (che essendo patriarcale, è come dire che è proprietà dell’uomo). 

Il mio microfemmismo preferito è quello di non spostarmi se sto camminando per strada e di fronte a me in direzione opposta viene un ragazzo/uomo. E se manco lui vedo che si sposta e rischiamo di venirci addosso, mi fermo e lo costringo a deviare. Non è un atto di maleducazione ma una rivendicazione degli spazi. Per troppo tempo ci siamo spostate per far passare gli uomini tanto che abbiamo fatto credere loro che lo spazio pubblico gli appartenesse. Ed in fondo è cosí: noi donne non possiamo andare in certi posti essendo al sicuro o senza rischiare machismi o violenze. Quindi non rompere le scatole, Giampiero, se sul marciapiede ti devi spostare tu!

Un altro esempio di microfemminismo è quando interrompo un uomo che mi ha interrotta in precedenza, con fermezza ma educazione e facendoglielo notare. “Ti interrompo come hai fatto tu poc’anzi per farti notare che…”. Anche qui, l’obiettivo è scardinare la concezione patriarcale radicata che da più importanza alle parole di un uomo rispetto a quelle di una donna. 

Se mi chiamano ragazza o signorina, in ambito professionale, li correggo facendomi chiamare o col mio titolo e nome o con “signora”. Non è una questione di “anzianità” – anche se ormai ragazzina non lo sono più – ma un accento sul fatto che certi termini vengono utilizzati in maniera degradante e quindi minimizzare il ruolo della persona. 

Non ridere a battute sessiste: questo è un altro microfemminismo. Lo so che è un tema controverso, dato che la comicità a volte ridicolizza comportamenti o situazioni e per farlo si basa su cliché e modi di pensare. Ma sono proprio questi cliché e modi di pensare che se reiterati e normalizzati possono portare a delle conseguenze negative. Ridere alla battuta “mia moglie a casa comanda lei e io non decido niente” significa normalizzare il fatto che quell’uomo non è un adulto funzionale e sua moglie deve prendersi cura di tutto in casa sobbarcandosi la carica mentale di decidere tutto anche per lui. E questa è una delle forme di violenza di genere più sottili e pericolose che esistano. E no, a me la battuta non fa ridere. 

In pratica i microfemminismi riportano alla dimensione personale e giornaliera le lotte femministe, dando la possibilità a chi non può fare attivismo pubblico di esercitare piccole rivendicazioni quotidiane. Perché il femminismo non vive solo nelle piazze, nei saggi o nelle associazioni. Vive anche nel modo in cui parliamo alle nostre amiche, in cui ci rivolgiamo agli altri, in cui ci presentiamo e ci facciamo chiamare. Sono in pratica la voce bassa ma costante che insiste senza urlare e può arrivare a cambiare le cose. 

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