“Il riparatore di bambole” – Incontro con l’autore #3

Intervista in 3 atti, con il nostro autore Marco Giglio che ha appena pubblicato il suo nuovo romanzo.

D: In un’intervista, Camilleri raccontava di dedicare mesi o anni alla ricerca per i suoi romanzi storici, mentre scriveva di Montalbano come pausa, perché più immediati. Però era deluso dal fatto che il pubblico premiasse questi ultimi, meno impegnativi, rispetto ai suoi lavori storici, a cui teneva di più.

Nel tuo libro, si legge che Beppe Balistreri ripara bambole e intraprende un viaggio tra Palermo e Parigi rivivendo legami e memorie del passato. Quanto è stata importante la ricerca storica e dei luoghi per dare spessore al contesto e ai personaggi?

Marco: La ricerca è stata fondamentale. Non ho mai pensato a Il riparatore di bambole come a un semplice romanzo di finzione. Al contrario: è una storia che si radica in un tempo preciso e in una città precisa, Palermo, che nel corso del Novecento ha subito ferite profonde. Ho cercato di raccontare la memoria collettiva attraverso i dettagli più intimi: le botteghe che non esistono più, le ville abbattute durante il Sacco di Palermo, i mercati, i conventi, le strade chiamate ancora col nome che gli dava la gente.
Scrivendo, in undici anni, ho camminato molto, fotografato luoghi, letto libri, sfogliato archivi online, ascoltato racconti familiari. Il protagonista viaggia anche attraverso altre città a me molto care. Erice, tra tutte. Per un periodo della mia vita ho trascorso intere giornate tra i suoi conventi, la sua nebbia, il Castello con i suoi giardini, avvolti da un silenzio sospeso. Ho cercato di ricreare quell’atmosfera di raccoglimento e mistero che la contraddistingue, e che spero di trasmettere al lettore.
A Parigi, invece, ho cercato con cura i passaggi coperti, i mercatini dell’usato, le vie della memoria, perché tutto ciò che attraversa Beppe nel romanzo doveva essere credibile, vissuto, riconoscibile anche per chi quei luoghi non li ha mai visti.
Ma non si è trattato solo di luoghi: la ricerca ha riguardato anche la lingua, gli oggetti, i gesti. Una bambola BRU acquistata negli anni ’20 non è solo un giocattolo: è il riflesso di un’epoca, dei suoi desideri, delle sue possibilità economiche, dell’infanzia com’era, e di quella che poteva essere. Perfino una canzone, o una formazione calcistica del ’34, ha un peso narrativo e simbolico. Spesso porta con sé personaggi nati al Capo, il quartiere dei miei nonni, dei miei Natali.
Capisco bene il sentimento di Camilleri. Anche io temo che il libro venga letto come una semplice storia malinconica, mentre sotto c’è una stratificazione enorme di lavoro, di studio, di cura. Ma in fondo è giusto così: il lettore deve emozionarsi, non accorgersi della fatica. E se anche una sola persona, dopo aver chiuso il libro, vorrà sapere cos’era Villa Deliella o chi erano i bambini del Capo, allora il mio lavoro sarà servito davvero.

D: Nei tuoi articoli per abattoir.it ho notato che spesso parti da storie antiche, quasi leggende, e descrivi luoghi con grande precisione. Ti piace costruire i tuoi racconti su basi reali, oppure preferisci far rivivere memorie del passato, magari legate a esperienze tue o di chi ti è vicino?

Marco: Credo che memoria e realtà siano inseparabili. La verità di un racconto, per me, non sta tanto nei fatti verificabili, quanto nella risonanza emotiva che lascia. Nei miei articoli per Abattoir.it partivo spesso da storie vere, talvolta dimenticate o trasfigurate dal tempo, e provavo a restituire loro dignità attraverso la scrittura. A volte si trattava di leggende urbane, altre volte di luoghi che conoscevo bene o che mi erano stati raccontati da chi li aveva vissuti davvero.
Anche ne Il riparatore di bambole, il lavoro è lo stesso, ma più profondo.
Sono sempre stato di indole malinconica. Una di quelle persone che si legano ai luoghi e alle persone, e che li vivono con una sensibilità più accentuata del normale.
Un fotografo molto bravo a Palermo, durante una mostra personale con immagini in bianco e nero della città, una volta mi disse che spesso tutto nasce da un sentirsi “vicchiarieddi” dentro.

Quando passeggio con mia moglie in centro, divento una guida di luoghi del cuore, soprattutto botteghe storiche che non ci sono più, e ogni volta, con gli occhi pieni di meraviglia infantile, sento ancora un attaccamento quasi familiare a quelle botteghe sparse ovunque nel quartiere. Non è facile da spiegare, ma con il tempo ho capito che è un sentimento più diffuso di quanto si pensi.
Salvare, ricordare: non solo immagini, ma anche suoni.
Affacciato dal balcone sul cortile, sul finire degli anni ’80, si sentiva ancora il rumore di un artigiano, un siggiaro, che impagliava sedie di legno. Ancora oggi ricordo il suono, il fruscio della paglia intrecciata che partiva dal cortile e si arrampicava fino al secondo piano: gesti sempre uguali, umili. Lo ricordo con nostalgia perché ci sgridava, ci intimava di andare a giocare a piazza San Giovanuzzo (Piazzetta di San Giovanni alla Guilla), intimandoci di tagliare il pallone. Poi sparì da un giorno all’altro, seguito più avanti da tante botteghe artigianali di mobili in via Judica.
Ho sempre sentito il bisogno di scrivere per salvare qualcosa dall’oblio: una via con un nome antico, un edificio scomparso, un gesto quotidiano, un tipo umano. Ogni dettaglio che inserisco nasce da un dialogo tra ciò che ho vissuto e ciò che ho ascoltato. Palermo, per esempio, è raccontata non com’è oggi, ma come l’hanno vissuta i miei nonni, i miei genitori, e i bambini di cui mi parlavano.
Non cerco l’effetto nostalgia, ma un senso di continuità fragile tra passato e presente, tra chi siamo stati e ciò che resta. Costruire su basi reali non significa solo documentarsi: significa anche ascoltare, accogliere, e trasformare quel vissuto in qualcosa che possa appartenere anche ad altri. Questo, per me, è il cuore della scrittura.

D: L’editoria sta attraversando un momento molto particolare:
Da un lato, l’intelligenza artificiale mette a rischio la proprietà intellettuale; dall’altro, gli ebook riducono costi e prezzi dei libri, ma favoriscono la pirateria delle copie digitali. Gli editori, inoltre, sono sommersi da richieste di pubblicazione e faticano a scremare, rischiando così di far perdere nel mare di proposte mediocri delle vere perle. Si parla spesso di un’offerta eccessiva, anche di bassa qualità, rispetto alla domanda, e molti autori emergenti, come te, si trovano a optare per il self publishing.
Qual è stato il tuo percorso in questo contesto? E quali sono state le motivazioni che ti hanno spinto a scegliere questa strada?

Marco: Il mio percorso nasce dalla volontà di raccontare una storia, non di entrare per forza nel “mondo dell’editoria”. Se un libro ha qualcosa da dire, per me vale la pena scriverlo anche se dovesse arrivare solo a pochi lettori, altrimenti, ne avrei pubblicato uno (o più) ogni anno.
Il mio primo libro, ad esempio, Cuffie e Pannolini, nasceva dall’esigenza di raccontare l’esperienza di famiglie nate all’interno di un call center: la loro genesi familiare, la resilienza e la speranza, in un contesto spesso snobbato e soggetto a dinamiche che di umano non hanno nulla.
E proprio perché viviamo in un’epoca di sovrapproduzione e saturazione, per il mio primo romanzo ho scelto di prendermi tutto il tempo necessario per lavorare con cura, senza pressioni editoriali.
La mia non è una scelta dettata da rifiuti, né da impazienza. Al contrario: avrei potuto inviare il manoscritto a decine di case editrici, ma ho preferito non farlo. Non volevo ridurre questa storia a una “proposta commerciale”, né aspettare mesi per ricevere un silenzio. Il self-publishing mi ha permesso di curare ogni dettaglio: dall’impaginazione alla copertina, dalla revisione stilistica fino al tono da dare alla promozione.
È vero, viviamo in un’epoca in cui l’intelligenza artificiale sta ridefinendo il concetto stesso di creazione. Ma è uno strumento: e se usato con consapevolezza e competenza, può solo agevolare. Basta pensare a cosa sia oggi la correzione automatica in un editor di testo rispetto a vent’anni fa.
Ma io credo che il lettore sappia riconoscere quando un testo nasce da un’urgenza autentica, e quando invece è frutto di fretta o calcolo. Anche il mio libro potrebbe finire su siti pirata, ma non per questo smetterò di scrivere. Lo farò finché sentirò di avere qualcosa da dire.
Il self-publishing, se affrontato con rigore, può essere una forma di libertà creativa, ma anche una forma di resistenza culturale. Non sempre significa “farsi da soli”: spesso vuol dire proteggere una voce, mantenerne l’integrità, anche a costo di fare più fatica.

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