Fenomenologia critica di Checco Zalone

Lo confesso. Ho cliccato su “Play” con moltissimi pregiudizi, convinta che non avrei sorriso, mai mi sarei lasciata andare ad una risatina, con ancora minori probabilità sarei scoppiata in una rumorosa risata. Per i primi minuti di film, rigorosamente visto in streaming grazie a megavideo, non senza un discreto senso di colpa, ho mantenuto le mie convinzioni, la mia espressione seria, il sopracciglio sinistro alzato in segno di scetticismo, le braccia incrociate. Poi è successo qualcosa, la genuina semplicità di Checco Zalone mi ha irretita, addolcita, intenerita. La sua comicità leggera mi ha rilassata, mi ha fatto dimenticare il piglio critico che mi ero imposta, e la noia iniziale è diventata discreta curiosità verso la prossima battuta, fino alla fine. E quindi eccomi qui, divisa tra l’elogio e la stroncatura, con le idee non abbastanza chiare sull’ultimo film di Checco Zalone, campione di incassi, con la sorpresa di produttori e critici cinematografici, se consideriamo che Che bella giornata ha superato anche gli incassi di La vita è bella di Benigni. Perché, se da un lato sono certa che la vittoria di Zalone sia la dimostrazione che in Italia la profondità e la cultura non pagano, dall’altro devo ammettere che non è del tutto privo di interesse il modo di far ridere del comico barese, che gioca con il clichè del meridionale ignorante e incapace, che grazie agli agganci giusti riesce a fare carriera, nonostante sia più un pericolo per i propri datori di lavoro, che non un vero aiuto. Parliamoci chiaro, Zalone fa ridere. Magari non ininterrottamente, magari non sempre in maniera brillante, ma una risatina scappa anche a me, cinica, prevenuta, ipercritica. Mi rimane il dubbio che questo tipo di comicità sia fertile, creativa, mi chiedo se possa davvero stimolare una riflessione, anche minima, su ciò di cui si ride. E non ditemi che la comicità è fatta per non pensare, perché storicamente la commedia nasce come critica dei costumi, della realtà sociale, della politica, non per il sonno delle menti.

E tuttavia, Zalone, al secolo Luca Medici, è laureato in giurisprudenza ed è un musicista jazz niente male, la sua conoscenza musicale gli consente di comporre le sue canzoni, spesso sul motivo di qualche successo conosciuto, e ha determinato il successo di Siamo una squadra fortissimi, pezzo nato per scherzo, durante i mondiali di calcio del 2006. E così, appurata la sua formazione multidisciplinare, non è forse lecito chiedersi perché il buon Luca non abbia arricchito i suoi personaggi di una qualche riflessione un pelino più profonda rispetto al mono-espressivo Checco, un po’ ottuso, ignorante, lievemente inutile, ma, bisogna ammetterlo, dotato di un’emotività tale da superare molti limiti?

Ecco perché il film concorrente, Qualunquemente di Antonio Albanese, ha già superato gli incassi di Zalone in poche settimane, ed ecco perché, sebbene abbia delle riserve anche su Albanese, penso che quest’ultimo abbia una comicità più incisiva, e allo stesso tempo più critica, pensata, amara. C’è in Albanese una coscienza critica più marcata, coscienza che conferisce un carattere forse più cinico e meno ridanciano (sebbene si rida moltissimo guardando Qualunquemente) della media delle performance di Zalone, ma sicuramente più aderente alla realtà nella quale viviamo, più “utile” ai fini del risveglio della coscienza assopita dello spettatore.

Ma di cosa parla Che bella giornata? Checco è un bodyguard che tenta in tutti i modi di fare carriera, e, grazie ad una serie di agganci e raccomandazioni, finisce come addetto alla sicurezza del Duomo di Milano, sebbene sia impreparato e incapace. Viene irretito da Farah, una ragazza araba che si finge studentessa interessata alle bellezze artistiche del Duomo, ma che in realtà sta tramando un attacco terroristico ad un luogo simbolo della religione cattolica. E anche qui i luoghi comuni sull’Altro, sulla differenza di genere, di cultura, di religione, e così via, si sprecano, intrecciati con una storiella pseudoamorosa messa lì appositamente per non somministrare la definitiva dose di fase rem al pubblico.

Mi sono documentata, e da alcune interviste pare che Checco abbia più volte affermato che la politica non gli interessa, che non ne capisce molto, che la sua comicità non ha niente a che vedere con l’argomento. Ho visto l’intervista di Serena Dandini a Parla con me, e Zalone mi è sembrato un ragazzone intelligente e tutto tranne che ignorante, ma anche lì ci ha tenuto a precisare che la sua comicità è priva di risvolti politici. Ma la critica sociale non può non avere a che fare con la politica, e senza una riflessione critica, i personaggi di Zalone, con i loro limiti, i tic, le lacune, l’ignoranza, l’illegalità dei comportamenti, sono mascherine banali, da una risata e via, senza tridimensionalità. E, cosa ancora più grave, nella leggerezza generale, non è più chiaro cosa è giusto e cosa debba essere rifuggito, e lo spettatore non ha stimoli, eccezion fatta per la risata immediata, momentanea, e fine a sè stessa. Ecco, dunque, che i miei dubbi su Checco Zalone, e sul suo ultimo film, diventano fondati, e comprendo perché l’enorme e imprevisto successo di pubblico abbia destato i miei sospetti: non è forse il protocollo vanziniano quello per cui la situazione comica stimola la risata, al limite della volgarità, spegnendo via via ogni zona del cervello, rendendo lo spettatore passivo e sempre meno incline all’indignazione, e, quindi, al cambiamento? Non è forse conforme alle istanze dell’attuale regime mediatico il sorriso leggero e privo di conseguenze del telespettatore-elettore che si convince che non ci sia niente da cambiare in questa realtà così bassa?

2 thoughts on “Fenomenologia critica di Checco Zalone

  1. Secondo me ci tiene a sottolineare che non è interessato alla politica perché molti artisti in Italia se non sono impegnati, qualcuno a turno cerca di farlo comparire come un suo simpatizzante. Essere nell’occhio del ciclone in una società scostumata come la nostra è difficile e allora uno deve fare più possibile l’antipatico per difendersi.
    Zalone fa ridere perché è bravo e fa riflettere se il tuo cervello è già acceso, Benigni il cervello te lo accende e nello stesso film ti fa piangere, dimmi da “il mostro” a “la tigre e la neve” passando per “johnny stecchino” dove Benigni non sia stato geniale a mischiare le risate con i momenti di profonda riflessione.
    Per noi gente impegnata sempre alla ricerca di parole dure e di intellettualismi (poco ce ne frega che siano vuoti, ma a noi ci piace essere intellualoidi) Zalone è un materialista che pensa al denaro e a non parteggiare per nessuno e se parteggia si rinnega ogni volta che non lo mostra.
    Albanese invece che messaggio positivo da? Nessuno, come Travaglio fa solo critiche in cambio di qualunquismo. Il nuovo film di Albanese può fare ridere solo chi non lo conosce, ma chi lo conosce da anni ha capito sin dal trailer che è un film in cui a riciclato tutte le sue gag.

Rispondi

Questo sito usa Akismet per ridurre lo spam. Scopri come i tuoi dati vengono elaborati.