La lince del Capo

Non ne potevamo più dei topi che banchettavano con i resti del nostro cibo; i loro escrementi, piccoli e neri, li ritrovavamo in giro per casa, sul pavimento, in ogni centimetro quadrato di quello che mio padre continuava a chiamare “casa”. La notte sussultavo per paura che qualche ladro entrasse a rubare quel poco che avevamo ma poi, con i sogni ancora in corso, mi bastava ricordare che le imposte in legno erano ormai fradice e abbandonate all’inedia, e che quindi le visite potevano riguardare solo ratti o, se eravamo fortunati, solo quei piccoli e simpatici topini che vedevamo correre sopra le grondaie. Di tanto in tanto, però, dai canaloni settecenteschi arrivava un grosso gatto, e per grosso non intendo il solito gatto obeso, puccioso e immobile; per grosso gatto intendo un felino pesante, con una muscolatura e delle zampe robuste e l’eleganza di una lince; un pelo folto, occhi gialli e fieri da sfinge e uno sguardo tale da incuotere, se non timore, soggezione. Quando arrivava potevamo star certi che i topi non si sarebbero visti per un bel pezzo.

Non si annunciava se non una volta entrato dal balcone della cucina, balzando da quattro metri verso il nostro terzo piano, senza rincorsa. Miagolava con tono deciso e austero: un timbro da baritono che con un po’ di buona volontà, tra i suoi simili, si sarebbe trasformato in un buon tenore, ma non era certo quella la sua natura, né il momento per mettersi a cantare.
La “lince” infatti, veniva a reclamare i compensi per i suoi servigi: il prezzo della protezione contro la leptospirosi, il giusto compenso per occupare degnamente quella casa compresa nel suo territorio.
Per mesi continuò a frequentare casa nostra, soprattutto nel tardo pomeriggio, prima del  tramonto: miagolava, riscuoteva e spariva insieme all’ultimo raggio di sole.
Mio padre, che di certo non verrà ricordato ai posteri per il trasporto verso gli animali, arrivò quasi a rispettarlo; parlava al felino con fare dispregiativo, mettendosi alla pari e facendo intendere che quella era casa sua, che lui era l’unico a poter comandare e che non sarebbe più dovuto entrare, ma che, soprattutto, non avrebbe più trovato nulla da mangiare. Arrivava a cacciarlo con i piedi e lo invitava a prendere la “via di fuori”. La lince però rimaneva immobile, come se fosse stata tramutata in una statua di sale. Di tanto in tanto, miagolava con fare minaccioso: da qui non me ne vado. Se non era ancora chiaro, lo ribadiva stirandosi in altezza e agitando nervosamente la coda.
Alla fine, pur di toglierselo dalle scatole, mio padre cedeva. Prendeva qualche avanzo che la fiera consumava in tutta tranquillità ed eleganza, e fatto un giro per le stanze, degno di qualsiasi padrone di casa, riprendeva la via dei tetti sulle vecchie stalle del capo.
Di notte, quando rimanevano solo le luci delle case di fronte ad illuminare i vicoli e le piazze, potevamo sentirlo miagolare, lottare ed imporre la sua stazza a tutti gli esseri notturni. Ogni tanto, prima di addormentarmi, lasciavo che il ricordo della sua figura, presente qualche ora prima, continuasse a vagare per casa a protezione di un sonno tranquillo. Funzionava.
Anche mio padre pareva essere cambiato dopo quell’incontro: se prima si dimostrava restio a tenere in casa animali, posso affermare che proprio grazie all’opera persuasiva ed invasiva della lince, negli anni a seguire, i gatti, questi esseri sorprendentemente magici, cominciarono a far parte della famiglia.
La lince del Capo però non ci è mai appartenuta, credo che non sarebbero bastati nemmeno dieci anni di cure per addomesticarla: lei avrebbe continuato la sua opera tra le tegole, i vicoli e il limbo onirico in cui gli umani amano abbandonarsi senza protezione.
A distanza di trent’anni, anche se può sembrare assurdo, credo sia ancora lì, a continuare la sua opera di tutore naturale dell’ordine delle cose, dentro una delle sue nove vite.

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