Sorella, dove sei? (Ovvero: vaneggiamenti intorno ad un’idea di femminismo)

Femminismo. No, non è una parolaccia. E femminista, non è un insulto. Eppure è così, in questi termini poco lusinghieri e con espressioni a metà tra lo scherno e il fastidio stampate in faccia, che si affronta (quando lo si fa)  l’annosa questione, l’eterno problema, della parità (vera o presunta) tra i sessi, della rivendicazione di diritti da sempre negati, del ruolo della donna in una società patriarcale e fallocentrica, dell’oppressione e sottomissione a cui per secoli è stata costretta e delle grandi e piccole conquiste che sembrano oggi aver subito un arresto, quasi che ci si volesse accontentare del poco già ottenuto e campare di rendita sulle spalle delle antenate coraggiose e battagliere che di alzare la voce, loro, non avevano paura. E lottavano. E urlavano in faccia a padri selvaggi il loro diritto di studiare e di fare qualcosa di utile per il mondo, di essere qualcosa di più che madri amorevoli e mogli devote senza per questo doversi privare delle calde carezze del dolce carnefice, rinunciare a specchiarsi con sottile piacere negli occhi bramosi di lui. Appassionate valchirie che proclamavano, con voce ferma e decisa, i loro saldi ideali e gli indipendenti desideri e pensieri, fiere di essere padrone di molto altro, e molto meglio, oltre una lucente chioma e occhibelli dalle lunghe ciglia ammiccanti e sode cosce, richiamo e promessa di più nascosti tesori…

E ora, cosa è rimasto ora della preziosa eredità delle poche che, oltre ogni convenzione e legge non scritta, sfidando veti e divieti e barriere social-culturali vecchie di secoli, ma sempre solide e quasi imbattibili, hanno detto no ai dogmi imperanti, scegliendo senza esitare di prendere in mano il proprio destino e di realizzare, pur tra incomprensioni e difficoltà, il sogno segreto e lo scopo altissimo di una vita non più barattata e regalata ad un nuovo padrone? Vuoti litigiosi conflitti, sterili accuse cariche di odio e risentimento, inutile guerra persa in partenza per stabilire superiorità inesistenti, scontro sessual-ideologico in cui la posta in gioco è costituita dal peggio dell’uomo, competitività e orgoglio e ambizione sfrenata, assurto ad ambito trofeo a scapito di quelle più delicate caratteristiche, l’empatia, la sensibilità, la comprensiva tenerezza, che la tradizione da sempre associa al sesso femminile, ma che sesso non hanno, in realtà. E si litiga come cani rabbiosi per un tozzo di pane avariato, ci si sbrana a vicenda per il dominio su un ben misero territorio, ci si rinfaccia a vicenda colpe, sbagli e soprusi mai dimenticati, e nel far questo ci si dimentica di perseguire, e cercare di raggiungere, quel pizzico di libertà che ci è sempre stata negata, e che nulla (o ben poco) ha a che fare col numero di uomini portati a letto, con chi ha lo stipendio più alto, con le quote rosa e il minimo di presenza “imposta” in ambiti ai quali oramai dovremmo avere, se non libero accesso, almeno la possibilità di provarci senza aiuti e pedaggi privilegiati. Trattate come animali in via d’estinzione prima decimati e massacrati, poi salvaguardati e protetti per pulirsi la coscienza e sentirsi, forse, meno in colpa.

E chi ne paga le conseguenze, il prezzo più alto, è sempre lei, povera, negletta donna. Figlia, madre, moglie sfruttata, defraudata, privata dell’elementare diritto (ah, abusato termine, ma quanto mai calzante) di pensare a se stessa, di conoscersi, di coltivare un qualsiasi interesse, una seppur piccola aspirazione, senza che l’ombra minacciosa del maschio-Moloch incomba sul suo piccolo giardino incolto e trascurato, senza che ogni sottile filo della sua fragile esistenza vada a legarsi indissolubilmente attorno alla trama ben più composita di sfavillanti tele che narrano di battaglie, conquiste, sublimi capolavori donati al mondo, arte, poesia, musica eccelsa, eccelse sculture, alle quali mai è stato possibile partecipare, troppo occupate a preparar la cena, o a cantare la ninnananna al piccolo dormiente, o ad abbassare il capo con mortificazione davanti alle taglienti parole del padre-padrone che con furor di sentenza tuona di come la donna non sia niente, se non ha accanto un uomo, di come inutile e senza senso la sua vita, se non allietata e tormentata dai figli. E come pazzo e incomprensibile deve risultare, in un simile contesto, il gesto genuinamente ribelle di tutte coloro, così tristemente poche in verità, che all’uscita romantica col salvatore di turno preferiscono l’inebriante silenzio di una lettura significativa; che si imbellettano e si fanno belle per vedere riflessa allo specchio l’armoniosa immagine della meravigliosa persona che sono, lucente bellezza trasposta all’esterno e manifestata con orgogliosa gioia, piuttosto che per colpire e vivere di luce riflessa nello sguardo ammaliato di chi mai potrà comprendere il loro vero e intenso valore nascosto; che non smerciano il proprio corpo per ottenerne in cambio amori a metà, affetti incompleti e legami imperfetti, ché tutto è preferibile alla vergognosa onta di essere, e restare, sole, e che se si abbandonano ai piaceri della carne, al furore divino di estasi proibite, lo fanno senza biechi calcoli e odiosi moralistici sensi di colpa, semplicemente perché lo vogliono, adesso, con quell’uomo lì, e pazienza se non sarà quello della vita (ma esiste poi? Non sarebbe meglio parlare di uomini della vita?); e soprattutto, che non vedono nelle altre donne potenziali rivali e avversarie da sbaragliare nella patetica gara per accaparrarsi le attenzioni del capo più desiderato. Con buona pace della solidarietà femminile e del senso di sorellanza.

Ecco dunque che passano gli anni, cambiano i contesti, ma ci si trova sempre e inevitabilmente di fronte ai soliti frustranti ultimatum, agli opprimenti aut-aut che non lasciano scampo, ai vecchi e stantii stereotipi e ai pregiudizi duri a morire: o lavoro o famiglia, o amore o carriera, o sei una santa o sei una puttana, o sei bella ma intelligente quanto un pezzo di marmo o sei un genio ma attraente quanto un opossum spelacchiato, in una schizofrenica corsa lungo una strada non nostra che sempre a lui conduce, che è sempre lui a decidere. Le nevrosi del mondo contemporaneo non sono più esclusivo appannaggio dell’uomo, anche la donna adesso ne è vittima, questa sì che è uguaglianza. Coltivare la propria anima, ritagliarsi il proprio spazio e trovare e avere il coraggio di seguire la propria strada, in mezzo al frastuono moderno odierno, riuscendo a divincolarsi tra i ruoli precostruiti che ci tocca recitare, è già difficile se si è uomo, è un’angoscia che trascende l’avere o  meno il pene; ma se nasci donna, in una cultura che si ostina a vederti come supplemento e delizioso ornamento, modesto satellite in orbita attorno all’unico e tirannico pianeta, dove è impensabile vivere per sé e di sé, essendo ogni pensiero, ogni emozione e sentimento, collegato più o meno direttamente, ed inconsciamente, al dio supremo del quale sei ancella fedele, e tutt’al più viene offerta come alternativa a chi tenta di fuggire dai lacci di essere la desolante brutta copia di un uomo al minimo delle sue possibilità, o, peggio (o forse meglio), la solitudine affettiva che sempre tocca a chi non si piega, dovrai faticare il doppio, triplicare gli sforzi e sudarti ben più che sette camicie, affinché ti venga riconosciuta, e rispettata anche, la libertà di pensarti ed essere un individuo completo, un essere umano pensante, al di là della tua vagina.

E allora dirsi, credersi femminista, nonostante tutto, nonostante il rischio di essere tacciata come avanzo anacronistico di anni ormai andati, non vergognarsi e non liquidare con sottigliezze ideologiche il glorioso passato, assume quasi il valore di un sentito ringraziamento, mantra speciale da ripetersi sempre per non dimenticare, e onorare vivendone gli insegnamenti, le anime speciali di Donne che hanno aperto la strada, che con il loro esempio, con le loro vite, hanno reso possibile, anche a me oggi, pensare come ovvie e scrivere e affermare a gran voce cose che fino a poco tempo fa, così ovvie non erano. E che forse non lo sono ancora. Forse.

2 thoughts on “Sorella, dove sei? (Ovvero: vaneggiamenti intorno ad un’idea di femminismo)

  1. Perché la patina di femminismo a volte fa comodo, e si stenta ad ammettere che si urla e si sussura -serene- in una società che matriarcale non è mai neanche per il cazzo, neanche quando la donna regge le fondamenta: lo fa alla luce del fallo, delle sue regole, delle sue proiezioni. Cazzo.

    Ci si prova a urlare ancora, ma bisognerebbe scrollarsi crostre di secoli e costruirne di nuove, realmente, puramente, femminee. La tradizione non è solo una brutta bestia, è la nostra seconda pelle, e ne dipendi anche quando non vuoi, anche quando non credi: lei è lì che ti intima di fare il contrario di quella che sarebbe tradizione. E anche questo contrario acritico, non è forse una dipendenza? Al contrario. Dipendi dal contrario, enfatissi ridicolizzandoli i tuoi ideali (ideali?), li sbeffeggi, li rendi nulli e vani patinati rossetti rosé da vulva infiocchettata per l’occasione. Con buona pace della realtà. Negletta. Donna. (Anche lei.)

    Il punto, quello vero, credo non sia di (ri)prenderci qualcosa, ma di crearlo ab origine, figlio appena concepito che cresce in grembivirgulti, ansiosi dei primi vagiti.

    (post bellissimo, ripieno di stimoli.)

  2. Condivido ogni parola; le pari opportunità in Italia sono veramente un esempio d’ipocrisia.
    Scompare il modello della donna di casa per essere soppiantato dalla donna liberta-libertina-oca ed tutto ciò che riguarda le donne diventa rosa, dalla confezione degli assorbenti alla “letteratura rosa”, per la maggior parte libri sullo shopping, pettegolezzi, sesso e amore: roba da Sex and the City.
    E’ questa la libertà per cui tante donne si sono battute fino ad essere aggredite fin troppe volte? Per dare alle figlie una vita alla Sex and the City o per darle una vita libera da schemi mentali arcaici?
    Io credo che se una buona parte dell’universo maschile non si schieri fermamente nella lotta quotidiana, fatta di piccoli ma importati genti, le donne rimarranno sempre sole e la loro lotta sarà poco utile.
    Qui, a scanzo di equivoci, non voglio insinuare che serve ancora la figura di chi ha una massa corporea più potente per risolvere i conflitti (in questo casi etici), ma che è necessario che l’uno (il maschio) riconosca l’altro (la femmina) come pari.

Rispondi

Questo sito usa Akismet per ridurre lo spam. Scopri come i tuoi dati vengono elaborati.