L’insopprimibile (e insidiosa) necessità di aggrapparsi a qualcosa

Vivere è difficile. Complicato. Fa paura. Mette duramente alla prova il nostro già debole coraggio di esserini vaganti senza meta, in balia della buona e della mala sorte. Mille nemici agguerriti ci assaltano quotidianamente, dentro e fuori, un soffio di vento improvviso può buttar giù il sudato castello di carte, una scossa maligna e beffarda spazzar via le illusorie certezze, lasciandoci ancora più incerti e disorientati a chiederci perché, a che pro tanto soffrire, tanto lottare, se poi l’inevitabile conclusione è la stessa da sempre, inevitabile epilogo che si ripete implacabile, a cancellare il poco o il molto che ci ostiniamo a mettere da parte. Ma se la natura è matrigna, la società, l’umano consorzio di simili e pari, parimenti condannati alla medesima esecuzione, non è meno crudele, coi suoi giochi di potere, le sottili ipocrisie, i falsi traguardi spacciati per mete assolute, gli inganni e le falsità che siamo (anche se in parte) costretti ad accettare, se vogliamo trovare, e mantenere, il nostro posto, silenzioso e magari anche nascosto tra le pieghe della cruda realtà, precario centro di equilibrio destinato ad essere continuamente messo in discussione. E che dire dei nostri demoni privati, delle ansie alimentate da eccessivo riguardo a quel che sta all’esterno, dei torti mai dimenticati, delle ferite che, per quanto si tenti di rimarginare, continuano a bruciare, delle frustrazioni e delle ambizioni violentate, del passato che si sarebbe voluto diverso, e invece torna a tormentarci col suo carico di rimpianti, e davanti a noi un futuro dai contorni incerti che vorremmo tanto riempire e rendere importante, ma non sappiamo come, da che parte cominciare, verso quale direzione…quella che sentiamo, e sappiamo, nostra, o quella che ci impongono “per il nostro bene”? Che finiamo per accettare per rassegnazione, per timore di non farcela prima ancora di aver iniziato, finendo così in un circolo vizioso di mera sopravvivenza che è la morte in vita, essere morti e non sapere di esserlo.

Facile dunque, perfino comprensibile, in una simile confusione, cercare disperatamente dei punti fermi, degli appigli in grado di sostenerci e farci sentire protetti, delegare ogni responsabilità e lasciar scegliere gli altri per noi, che non abbiamo il coraggio di guardare in fondo all’abisso e serriamo gli occhi con forza, ci tappiamo le orecchie per non sentire, e ci illudiamo di essere signori e padroni delle nostre azioni guidate in realtà da burattinai invisibili dai nomi ogni volta diversi, ma in fondo uguali: Stato, Chiesa, famiglia, opinione pubblica, morale, economia, effimere mode, per tutto c’è la soluzione già pronta, dateci solo il vostro cervello, al resto ci pensiamo noi. Del resto, è così stupido sobbarcarsi il peso di decidere da sé, di mettere in discussione i modelli correnti ritenuti giusti solo perché accettati dai più, di lasciare il branco in cerca di pascoli più ricchi, di valli più ampie e più verdi, quando ad abbassar la testa e la voce ricevi per premio un posto al calduccio e un pasto sicuro, basta solo belare con gli altri. Eppure, quanto più soddisfacente e spaventosamente inebriante è guardare giù, nel buio del baratro, e dopo il terrore iniziale e le iniziali vertigini, non barcollare e non afferrare, nel tentativo di evitare la caduta, rami insidiosi e rocce frananti, ma come fiera e imponente quercia, l’oscurità scrutare e scorgervi, evento quasi impensabile, quella fievole luce che nessuno sembra notare.

3 thoughts on “L’insopprimibile (e insidiosa) necessità di aggrapparsi a qualcosa

  1. Erano anni che non scrivevo qualcosa da pubblicare.
    Si sa, il tempo è tiranno e spesso, inconsciamente, riusciamo a diventare i peggiori nemici di noi stessi, porgendo i polsi alla routine che non perde tempo, ci incatena e ci ripete i nostri diritti, soprattutto quello di stare in silenzio. E noi, alzando gli occhi al cielo, cercando tra qualche nuvola una qualche risposta a una qualche domanda che ad altro non serve se non a farci superare il neanche troppo imbarazzante e breve momento in cui ci costituiamo alla paura del rischio.
    Dopo anni tocca anche a me un’ora d’aria, tanto preziosa e vitale da meritare l’attenzione, la cura e la speranza che ripone chi si perde in un deserto nella propria razione d’acqua.
    Un’ora vola in fretta e c’è sempre il rischio che qualche ricordo s’improvvisi predone e te la porti via, lasciandoti solo e derubato. Vuoto.
    Viviamo in un mondo in guerra. La sveglia naturale è reato (pena il senso di colpa), indossiamo la nostra divisa, ogni giorno diversa, come quella di un soldato che non capisce per cosa sta sacrificando la propria vita. Chi va a piedi, chi non, tutti stressati tra un campo di battaglia e l’altro, fucilati dagli sguardi del confronto, storditi dalle granate dell’indifferenza che ogni giorno ci bombarda e ci ordina di correre. Fuggire.
    Poche parole, sempre pesate, mai dette per caso (pena il pregiudizio), escono dalle nostre bocche come proiettili lucenti, infrangendosi nel muro dell’orgoglio o provocando anonime ferite su qualche corpo inanimato. Coraggio.
    Ci vuole coraggio (tanto) per affrontare la vita ogni giorno, con un sorriso diverso ma sempre sincero. E ci vuole umiltà (tanta) per scendere a patti con ciò che la vita ti dà ogni giorno, con un baratto o una proposta non sempre così vantaggiosi.
    A volte, a stare tra le nuvole, si perde qualche scambio conveniente, ma si guadagnano degli ottimi ingredienti per assicurarsi una notte serena.

    p.s.
    Ho pubblicato questa nota su FB l’8 gennaio ma vedo che ci sta a puntino.

  2. Beh, potrei scrivere pagine intere su quest’argomento e tu lo sai.
    Mi limito a dire che, purtroppo, hai ragione: siamo tutti costretti ad accettare, anche limitatamente, le catene imposteci dalla società. E per me, come credo anche per te e per un bel po’ di gente, guardare diritto in fondo a quel baratro buio è un po’ un modo di riscattarmi da queste catene, almeno in parte. La luce c’è in fondo, basta guardare attentamente.

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