Estate: tempo di mare, vacanze, ferie. E viaggi. Chi può permetterselo, chi durante il resto dell’anno è stato costretto dietro una scrivania, o un bancone, o una cattedra, bloccato dall’obbligo di tirare a campare, può finalmente, in questa assolata stagione di ozio e di afa e di sudore appiccicoso, staccare la spina e viversi attimi di spensierato riposo. Lunghe code, esodi, autostrade intasate e traffico asfissiante, tutto per raggiungere l’agognata meta: una spiaggia stra-affollata, il villaggio turistico lungo la costa con vista sul mare, per i più arditi e danarosi addirittura la città oltre confine o l’isoletta dal nome figo sperduta chissà dove in un oceano a caso. Ore interminabili di attesa cocente sotto il sole sferzante, stressanti file tra check-in e ritiro bagagli, giorni interi passati tra valigie e preparativi e ansia pre-partenza con l’immancabile sensazione di aver dimenticato qualcosa- il gas acceso? I biglietti? Il gatto fuori casa e a dieta forzata per un mese?- corse frenetiche per non perdere l’aereo, per ritrovarsi on the road due preziosi secondi prima del milione circa di speranzosi che agognano un pezzo di mare, uno scampolo di sabbia e di relax per spegnere, almeno per pochi giorni, con la monotonia di giornate pressanti e sempre uguali. Poi arrivi a destinazione, ti sistemi nel tuo angolo di paradiso in affitto, te lo godi per quei tre giorni o due settimane o un mese, giusto il tempo di abbronzarsi o di collezionare l’ennesimo flirt o di aggiungere su facebook quello che ballava la macarena accanto a te, le foto di rito ai suggestivi paesaggi con annesso il nostro faccione accaldato in primo piano, azzeramento totale della memoria con cancellazione temporanea di parole come lavoro, impegno, scadenza. Poi la vacanza finisce, si ritorna alla routine, ai giorni pieni e alle tensioni giornaliere, in attesa per i prossimi nove mesi che il ciclo ricominci. E che cosa rimane, di quelle giornate lente ed oziose spese in riva al mare a non pensare a nulla? Qualche foto, e la voglia nostalgica di ritornare a quei momenti sfaticati. Adesso pure il silenzio va di moda, preso a piccole dosi tra il frastuono cittadino e i rumori metropolitani di una vita vissuta troppo alla svelta che necessita di una pausa, di un breve attimo di pace e contemplazione tra le mura fresche di quiete di un tranquillo monastero nascosto tra i boschi di un inaccessibile monte.
Ma c’è un altro modo di viaggiare, di prender la valigia e partirsene incontro a posti nuovi e mai visti; un viaggiare che si fa esperienza profonda, che ti cambia e ti trasforma, incontro col fuori che ti plasma e ti rende diverso, dentro. E una volta tornato sul serio non sei più come prima, un’altra persona fa il suo ingresso nella tua anima e ti accompagnerà fino al prossimo viaggio, fino alla prossima apparizione di nuovi te mai vissuti. Non è necessario andare chissà dove, scegliere chissà che mete esclusive, per essere investiti da una simile miriade di sensazioni che invisibili agiscono e corrodono il tuo io pietrificato: una città a pochi chilometri da dove sei nato e cresciuto, un paesino sperduto ignorato dai turisti affaccendati e seguaci fedeli di guide e percorsi già stabiliti, un boschetto solitario non segnato in nessuna cartina. E poi ci sono gli incontri, le persone, vita che incontra altra vita, opinioni diverse, diverse culture e modi di guardare all’esistenza, parole e sguardi che ti segnano, ti attraversano e durano ben più dello spazio di una tintarella.
Viaggiare, quando inteso e vissuto così, diventa allora ricerca e scoperta continua, modalità tipica del nostro stesso essere al mondo: ogni posto visitato, ogni Paese in cui si è stati, non è soltanto un’ulteriore tacca da aggiungere all’egocentrica collezione di pezzi di mondo da depredare senza farsi afferare da essi, ma simbolo stesso di una condizione incerta, inquieta, carica di dubbi e priva di identità stabili date una volta per tutte, rappresentazione di irrequietezza congenita alla quale si tenta di far fronte perdendosi nel vasto mondo, afferrandone quanto più possibile, mordendone le infinite differenti storie di popoli lontani, diversi solo in apparenza, inseguendone la cultura, l’arte, il folklore, le tradizioni, dimenticandosi anche solo per un attimo, nell’esaltante conquista di mondi che non sono il nostro, i piccoli contrattempi e le nevrosi che ci assillano, paranoie e paure alle quali troppo peso vien dato, e che frenano e avvelenano e rendono impossibile uno scambio sereno e appagante con quel che c’è fuori le nostre menti turbate. Più delle guide, più delle cartine, delle mappe e delle tappe obbligate delle quali si deve al ritorno raccontare con orgoglio, è di passione e genuino amore per ogni piccola manifestazione del vivente che c’è bisogno, è di curiosità e rispetto per le culture altrui, per quell’Altro che è noi stessi, che bisogna munirsi prima di gettarsi, e vivere fino in fondo, l’avventura, le avventure, i genuini incontri, che andranno a comporre la nostra incerta e mutevole identità.
Non possiamo conoscere nulla d’esterno a noi scavalcando noi stessi, l’universo è lo specchio in cui possiamo contemplare solo cio’ che abbiamo imparato a conoscere in noi. Italo Calvino, Palomar
Grazie! Riflessioni come questa sono “doni di pensiero” su esperienze, come quella dell’uso delle vacanze, che molti subiscono, senza trovare la forza e le ragioni per un cambiamento di prospettive. Abbiamo bisogno di “ripensare diversamente” ciò che il mondo vorrebbe farci credere “normale.
Ho provato sulla mia pelle per naturale evoluzione.
Amo viaggiare, ma tra i miei primi viaggi c’erano luoghi gettonati, deludenti, banali. Ora non mi interessa più lo stupore ricercato, preferisco quello più naturale e genuino di quando non sai cosa aspettarti e può andar bene tutto pur di vedere il nuovo, tratti e lineamenti diversi, piatti tipici, storie tipiche, culture affastellate l’una sull’altra che si incontrano e illuminano cervelli, che si scambiano e si cambiano, seppur per una settimana… che alla fine, quando ti lascia qualcosa, scopri che non è così poco.
Ciao Liliana! Condivido ciò che dici. In fondo il viaggio è potenzialmente un serbatoio illimitato di esperienza e non a caso, credo, da sempre è metafora della vita.
Comunque ognuno legge tra le righe ciò che vuole. Il tuo post mi ha fatto riflettere sul viaggio non nell’ottica del viaggiatore ma in quella di chi resta, di chi guarda partire qualcuno e non vorrebbe. Penso allora all’attesa, alla speranza e alla paura di ritrovarsi ancora, perché il viaggio, quello vero, cambia.
Credo sia un’incognita per tutti. Chi ama una persona e la vede andarsene, non sa davvero che viaggio augurarle.
P.S. Dato che ci divertiamo a fare gli intellettuali, ho pensato di postarti questa poesiola, anche se magari la conosci già:
Prima del viaggio, E. Montale
Prima del viaggio si scrutano gli orari,
le coincidenze, le soste, le pernottazioni
e le prenotazioni (di camere con bagno
o doccia, a un letto o due o addirittura un flat);
si consultano
le guide Hacchette e quelle dei musei,
si cambiano valute, si dividono
franchi da escudos, rubli da copechi;
prima del viaggio si informa qualche amico o parente;
si controllano valige e passaporti, si completa
il corredo, si acquista un supplemento
di lamette da barba, eventualmente
si dá un’occhiata al testamento, pura
scaramanzia perché i disastri aerei
in percentuale sono nulla;
prima
del viaggio si é tranquilli ma si sospetta che il saggio
non si muova e che il piacere
di ritornare costi uno sproposito.
E poi si parte e tutto é O.K. e tutto
é per il meglio e inutile.
E ora che ne sará
del mio viaggio?
Troppo accuratamente l’ho studiato,
senza saperne nulla. Un imprevisto
é la sola speranza . Ma mi dicono
che è una stoltezza dirselo.