“Al di qua del bene e del male”*

La notte del giorno in cui misi piede nel più grande centro di sterminio nazista, ho sognato quegli stessi luoghi; avevo la sensazione di soffrire molto. Strano attendere quel momento per anni, eppure poi emozionarsi più in sogno; lì ero come difesa, svuotata, stupita dalla mia emotività assente. Lo shoc più forte è arrivato alla vista dell’ingresso di Birkenau, quello famoso che si vede nei film e questa volta lì davanti a me. Ma oltre a questo, osservavo tutto quasi in uno stato di alienazione, in quel silenzio pacifico di un cimitero di mattoni e di legna, di erba rada, di alberi e di selciati… la cui natura è quasi incoglibile, ora.

In 4 ore,  Marcus, la nostra guida, ci spiega mille particolari affannosi; spiega che Auschwitz era diviso in tre parti indipendenti: il cosiddetto campo base (Auschwitz I), con l’amministrazione centrale; il campo di sterminio per gli uomini e quello per le donne (Auschwitz II o Birkenau); il campo di lavoro per gli uomini a Monowitz (Auschwitz III o Buna), dove fu internato Primo Levi, che sorgeva nei pressi di un complesso industriale per la produzione di gomma sintetica.
Ci dice subito che oggi Auschwitz è un museo a cielo aperto e che fa parte dei Patrimoni dell’umanità dell’UNESCO; non è troppo difficile capire perché.
Stando lì, guardando quei grossi edifici di mattoni che potevano sembrare degli edifici polacchi qualunque, entrando nelle stanzette, nelle prigioni, dentro la semplicità di baracche che erano ex-scuderie per 52 cavalli cadauna (e poi usate invece per 1500 uomini!)… ho visto che la ferocia umana può essere anonima, può essere un segreto, celarsi in campi, in case coloniche, in pezzi di legno usati come letti, in 1 metro quadrato usato come cella, in grandi stanze usate come spogliatoi, in docce usate come camere a gas.
L’inganno dell’uomo, questo “memento”, è questo quello che credo sia il più grande patrimonio dell’umanità: un uomo misero che si sente forte, che ha un fucile e si fa crescere dentro un complesso di Dio per cui può disporre della vita e della morte, della salute e della malattia, del respiro e del soffocamento di un suo simile, di un neonato ebreo, di una vecchia sdentata.

Quello che mi ha sconvolto di più è stata la netta percezione della scaltrezza con cui i nazisti hanno ideato il tutto, coprendolo con il segreto di stato, scegliendo luoghi nascosti dalle foreste e dalle montagne, evacuando le zone vicine, vendendo agli ebrei stessi i biglietti del treno per “trasferirli” direttamente dentro le loro tombe. E poi la malizia di chiedere loro di portare tutto ciò che sarebbe servito per ricominciare una nuova vita… Tutti fagotti accuratamente preparati, pieni di vestitini e giocattoli per bambini, vettovaglie, strumenti di preghiera. Fagotti di fiducia dei cosiddetti aguzzini del Reich. Fagotti lasciati sulle banchine perché scesi dal treno si fila direttamente in camera a gas. Fagotti sequestrati meticolosamente, catalogati oggetto per oggetto, imballati e spediti in Germania per il sostentamento della grandezza tedesca. Lo spazio vitale, già, il prezzo da pagare da parte del mondo per consentire alla Germania di essere sé stessa, di conquistare quel potere, quella rigogliosità che la supponenza del popolo tedesco ha coltivato col nazismo; uno spazio vitale che prevedeva la liquidazione degli “intrusi”, dei polacchi, degli zingari, degli ebrei che ammorbavano i territori europei con la loro progenie, togliendo ossigeno agli ariani.
La follia di una visione perfettibile dell’umanità concretizzata in fiumi di sangue, di zyklonB, di ossa trasformate in saponi, di capelli trasformati in stoffe.
L’ossessione di estirpare agli ebrei le loro ricchezze e di farle trangugiare alla Germania, trasfusioni salvifiche di capelli (venduti al prezzo di 50 pfennig al chilometro), denti di metallo pregiato, orologi, valigie, sacchi, asciugamani, tovaglie, pellicce, vestiti mandati – toh! – alla commissione per il rafforzamento del germanesimo.
Tutto ciò che i prigionieri avevano portato con sé veniva depositato in baracche adibite a magazzino, chiamate nel gergo del campo “Canadà” perché il Canadà era considerato uno stato ricco e prosperoso; il valore degli oggetti, del denaro e dei preziosi in esse ritrovati è di 178.745.960 marchi, ottenuti solo tramite lo sfruttamento di cadaveri. Non a caso, Marcus ci fa più volte notare come l’industria nazista si sia sviluppata grazie allo sterminio dei prigionieri, approfittando del loro lavoro e dei loro corpi; vivi, e morti.

Con le viscere contratte, a metà percorso realizzo come la faccia più subdola della malignità delle SS stesse nel declinare le frasi, i comportamenti, nel distillare ironicamente crudeltà e morte a piccole o grandi dosi, in funzione dello scopo da ottenere: comportamento gentile ed accondiscendente per velocizzare le operazioni di scarico e selezione; costruzione di campi privilegiati (e temporanei!) per gli zingari, in modo da filmarli e da mandare all’estero le “prove” del loro sano operato; un’accoglienza crudele che voleva dal primo istante fiaccare la volontà, la dignità degli internati con le parole: “Non siete venuti in un sanatorio, ma in un campo di concentramento tedesco. Da qui non c’è altra via d’uscita che il camino del crematorio. Se a qualcuno questo non piace, può andare subito contro il filo spinato. Se in un trasporto ci sono degli ebrei, non hanno diritto a sopravvivere più di due settimane, i preti un mese e gli altri tre mesi” (K. Fritzsch, primo direttore del lager). E intanto la banda del lager suonava allegre marcette tedesche, con accanto cumuli dimostrativi di morti.

In merito alle famigerate selezioni, il medico delle SS J. Kremer scrisse: “Alle tre del mattino partecipai per la prima volta ‘all’operazione speciale‘. A paragone di essa l’inferno di Dante mi sembra una commedia. Non a torto chiamano Auschwitz il ‘campo dello sterminio‘…”
Il dottor E. Berhold, professore di pediatria e prigioniero delle SS, fece una commovente descrizione di una selezione di bambini: “Per la selezione dei bambini, gli uomini delle SS fissarono una stanga dell’altezza di 1,2 m. Tutti i bambini che passavano sotto la stanga andavano al crematorio. Essendo coscienti di questo, i bambini piccoli alzavano più che potevano le loro testoline per trovarsi nel gruppo di quelli destinati a vivere…” “Un giorno, chiaro e sereno, 600 ragazzi ebrei, di 12-18 anni furono mandati a morire. […] I ragazzi notarono il fumo del camino e subito compresero che erano condotti a morire. Li prese il terrore. Disperati correvano nella piazza strappandosi i capelli. Cercavano la salvezza. Molti piangevano.”

Tra i tanti blocchi, mi ha colpito la  prigione del campo madre, il blocco n. 11, detto “il blocco della Morte”. Qui tutto è rimasto come allora. Il cortile è ancora circondato da un alto muro, con fitte assi di legno sulle finestre che vi si affacciano; Marcus spiega che servivano ad impedire che si osservassero le scene che avvenivano sul cortile saturato dal sangue di circa 20.000 prigionieri torturati e fucilati presso “il Muro della Morte“.
Dentro, tra i molti, sadici, strumenti di punizione vi erano le “Stehzelle“, piccoli scompartimenti di 90×90 centimetri ciascuno. I prigionieri vi entravano carponi, da un’apertura sul pavimento, come cani nel canile; in ogni scompartimento dovevano stare quattro prigionieri, che non potevano sedersi o coricarsi; l’aria entrava soltanto da un pertugio di 5×5 centrimetri, cosicché i prigionieri spesso soffocavano.
Marcus spiega che l’internato poteva essere punito per qualsiasi cosa: per aver preso qualche pomodoro, per aver fumato sigarette, per aver soddisfatto i bisogni fisiologici durante il lavoro o per aver scambiato un dente d’oro con un po’ di pane.
Il regolamento era una finzione e tutta l’organizzazione della vita nel campo aveva lo scopo di seminare il terrore e di sterminare i prigionieri. Ai bagni si poteva andare solo due volte al giorni per cinque secondi cadauna, durante i quali si veniva picchiati in testa con dei bastoni. I topi entravano nelle baracche ed attaccavano gli uomini indeboliti. La parola “appello”, dal suono così innocente, terrorizzava: gli appelli erano prolungati di proposito dalle SS fino a raggiungere molte ore, senza riguardo alla temperatura; nel campo delle donne, spesso durante l’appello le prigioniere venivano fatte inginocchiare con le braccia levate in alto; il 6.07.1940 l’appello durò 19 ore circa. Il nutrimento giornaliero era di 1.300-1.700 kilocalorie, inferiore a quello che occorre normalmente ad un organismo umano in riposo; le foto degli internati sono indimenticabili: fantasmi grigiastri, “bestie stanche“, “morti che camminano“ con le ossa acuminate fuori dal volto, dal petto, dalle giunture, che non si capisce come non bucassero la pelle dall‘interno. Non era distribuita acqua da bere, non ci si lavava, se non ogni due settimane, recandosi nudi alle docce anche in inverno, ovvero procurandosi spesso una polmonite letale. I medicamenti erano costituiti da aspirina e pastiglie di carbone di lena, cosicché persino la malattia più insignificante diveniva minacciosa. Per le scarpe di duro legno si formavano sui piedi ferite e piaghe. Le operazioni chirurgiche fatte dai medici delle SS finivano spesso con la morte dei prigionieri ed avevano il carattere di esperimenti piuttosto che di cure.

…Queste sono solo alcune delle cose che ho imparato; mi sembrava giusto darvi voce, ripeterle qui, dare loro la dignità e la conoscenza che meritano, che non basta mai. E mi sembra giusto ricordare ancora quei uomini con le parole di uno di loro, Primo Levi:

“[…] Considerate se questo è un uomo
Che lavora nel fango
Che non conosce pace
Che lotta per mezzo pane
Che muore per un sì o per un no.
Considerate se questa è una donna,
Senza capelli e senza nome
Senza più forza di ricordare
Vuoti gli occhi e freddo il grembo,
Come una rana d’inverno. […]”

Oggi sappiamo che più di 1 milione e 300 mila persone furono deportate ad Auschwitz . 900.000 furono uccise subito al loro arrivo e altre 200.000 morirono a causa di malattie, fame o furono uccise nel tempo.

Il processo di sterminio e le condizioni di vita nei lager erano segreti, camuffati anche negli atti ufficiali. Finzioni protette dall’involucro opaco dell’indifferenza.
Ed è stato possibile per quasi 5 anni.

Per parte mia, ho goduto osservando dentro il campo la forca sulla quale fu comminata la pena di morte a Rudolf Höss, comandante di Auschwitz.
Ho camminato lenta in lungo e in largo su quei terreni, consapevole di calcare centimetri su cui erano morte chissà quante persone per ogni mio passo, calpestando chissà quante ceneri, respirando chissà quanti corpi. E tremo al pensiero che siamo capaci di tanto, e di ignorare tanto.

“[…] Io chiedo, come può un uomo/Uccidere un suo fratello/Eppure siamo a milioni/In polvere qui nel vento/In polvere qui nel vento.
Ancora tuona il cannone/Ancora non è contenta/Di sangue la belva umana/E ancora ci porta il vento/E ancora ci porta il vento.
Io chiedo quando sarà/Che l’uomo potrà imparare/A vivere senza ammazzare/E il vento si poserà/E il vento si poserà. […]” (Auschwitz – F. Guccini)

“Auschwitz è fuori di noi, ma è intorno a noi, è nell’aria. La peste si è spenta, ma l’infezione serpeggia: sarebbe sciocco negarlo. In questo libro se ne descrivono i segni: il disconoscimento della solidarietà umana, l’indifferenza ottusa o cinica per il dolore altrui, l’abdicazione dell’intelletto e del senso morale davanti al principio d’autorità, e principalmente, alla radice di tutto, una marea di viltà, una viltà abissale, in maschera di virtù guerriera, di amor patrio e di fedeltà a un’idea.” (P. Levi)

*Dall’ottavo capitolo di  “Se questo è un uomo”, di Primo Levi.

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