Summer on a solitary balcony

Ti affacci su un balcone di un qualsiasi quartiere medio abbiente. Ritrovi di fronte a te alti palazzi a più piani. È sera. Ed essi come il cielo non hanno colori sgargianti, se non i riflessi innocui della strada.
Immagino che siano tutti in vacanza ad abitare temporanee proprietà private a pochi minuti dalla spiaggia o su in alto tra le boscaglie montagnole. Ma queste abitazioni di città non sono però del tutto spente, tappate dalle doppie serrature per la lunga assenza. Scorgo presenze buttate sul letto oltre i buchini delle serrande abbassate, uomini stravaccati sui divani davanti la tv e timide donne che si prendono qualche secondo d’aria vera sul proprio balcone.

Grosse costruzioni si ergono verso l’alto proiettando invece verso “quel paese” i rapporti sociali.
Sette o otto piani per due, 16 appartamenti e chissà quante persone si conoscono all’interno di questi parallelepipedi del 20/21 esimo secolo. E vedere tutti questi balconi così scarni di esseri viventi, al limite addobbati dalle piante, ma spesso per manifestare il proprio impegno nello sfidare i propri vicini invidiosi. Quando appare una donna in questi complessi monumentali sembra solo un puntino indistinto nella solitudine della vita di città. E mentre gli interni sono abitati grazie alle moderne tecniche refrigerative (anche se sembrano vuoti) l’esterno, il proprio balcone o il proprio terrazzino, rimane la squallida fotografia di un insuccesso da attribuire all’architettura privatizzante degli ultimi anni, dove si tende a mettere un pannello privé anche nella stessa famiglia.

Da un lato i motivi di queste “architetture moderniste” possono esser ritrovati nell’accettabile bisogno di non essere invasi; dall’altro lato c’è da riflettere su come l’uomo abbia imposto involontariamente dei limiti invalicabili al suo naturale incontro con l’altro/gli altri.

Fa riflettere che invece ti ritrovi a criticare quelle “insulse” figure da paese che, in un quartiere meno abbiente, usano invadere la strada, mettendo le proprie sedie di paglia, di plastica, davanti alla propria porta; li consideri primitivi, perché passano tutta la notte a parlare, con vicini, parenti, a cullare il figlio appena nato, magari sgranocchiando qualche frutto secco, o del melone ghiacciato; ma sono quei pochi abitanti di città che conservano quella caratteristica sociale che dovrebbe appartenere alla razza umana, che ha la necessità di stare con i propri simili umanoidi e che molte volte viene privata dalle sue funzioni originarie come manovrata da un burattinaio.

Si preferisce restare nel fresco artificiale tra le pareti di cemento che avere a disposizione un angolo di natura che recherebbe fastidi per la presenza di mostruosità come scarafaggi, zanzare, gatti, topi, cicale, uccellini. E in quest’apoteosi del viver comodi ma alieni, non potremmo far altro che aggiornare il grado di empatia dell’uomo che via via si appropinquerà allo zero.

Saranno gli occhi degli altri, così impiccioni.

Sarà l’oblio delle nostre primitive pulsioni.

Sarà che non ci piacciamo così tanto da farci vedere.

Sarà che ci stiamo involvendo verso l’homo aliens aliens.

Ne sarebbe una logica conseguenza: siamo in un’era così piena di voglia comunicativa come quella che stiamo vivendo, ma dovremmo anche far caso a quella successiva, che non può continuare su questa strada: quando vengono raggiunti certi picchi, crearne degli altri è una follia.

O probabilmente è folle tutto questo ragionare sui balconi vuoti in estate e li fuori fa semplicemente troppo caldo.

One thought on “Summer on a solitary balcony

  1. Bella riflessione. Spesso mi stupisco di come dietro un pezzo di carta o un balcone ci sia tutta una società, un micro e poi macro-mondo.
    L’importante poi ti accorgi che è vederlo, scoprirlo. L’insight fulminante di un secondo che rivela tutto.

    Bravo.

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