Aboliamo il titolo di studio? Meglio di sì…

Dai classici mass-media agli innovativi mezzi di comunicazione online si è sparsa tempo fa la notizia che avrebbero voluto abolire il valore legale della laurea. La notizia, detta così, è vera a metà: peccato che in quei messaggi veniva stravolto tutto il significato della proposta.
La notizia correva per lo più così: “Il governo Monti vuole abolire il valore legale della laurea che verrà abolito e sostituito con l’appartenenza d’ateno.”
Così che tutti retweettavano, condividevano su facebook, ma nessuno si documentava. Ristabiliamo la chiarezza sulla notizia e poi riflettiamoci su.
La proposta non è solo quella di abolire il valore legale della laurea ma di tutti i titoli di studio; la proposta non contiene alcun riferimento alla valorizzazione di alcuni atenei rispetto ad altri; la proposta non viene da nessuno del governo, ma da un deputato dei Radicali, Marco Beltrandi. Tutto ciò lo potete leggere da voi direttamente dalla fonte: il sito dei radicali.
Quello che viene proposto non è solo un intervento di riforma universitaria, quello che viene proposto è una rivoluzione del mondo dell’istruzione e dei suoi rapporti con il mondo del lavoro, il tutto in chiave meritocratica. Non si tratta solo abolire il valore del titolo di studio (anche quello delle scuole superiori), ma anche di riformare il sistema delle borse di studio e dell’inserimento nel mondo del lavoro tramite concorsi pubblici.

Poniamo la riflessione sul piano del significato del valore reale e del valore ideale del titolo di studi, per esempio quello della laurea.
Il valore ideale di una laurea sta nel possedere conoscenze approfondite e competenze adeguate nella disciplina in cui la laurea viene conseguita. Un laureato in filosofia deve conoscere bene i diversi problemi filosofici della storia del pensiero di tutte le età passate e deve saper porsi con analitico riguardo verso i problemi presenti e futuri, sia che si tratti dell’essenza dell’essere e della differenza tra essenza ed esistenza sia il rapporto del linguaggio con il mondo e le mutazioni dei rapporti sociali.
Il valore reale di una laurea invece si perde in complicazioni in cui il valore ideale si disperde, infatti non è raro trovare studenti che sono effettivamente più in gamba di altri nonostante il voto finale degli esami o del voto di laurea. Spesso, infatti, non è proprio chiaro cosa distingua un 30 da un 30 e lode o da un 28. Nei concorsi pubblici, dove il il voto di laurea da un peso diverso nella valutazione del curriculum un 105 e un 109 (spesso anche 110) hanno lo stesso valore.
Che valore ha una laurea in psicologia e una economia per lavorare in un settore diverso sia dell’economia o dalla psicologia?
L’offerta del mercato del lavoro oggi appiattisce di suo il valore del titolo di studi, perché per lavorare come commesso in un centro commerciale o in un call center non serve neppure un titolo di studi, eppure noi tutti laureati siamo costretti a rincorrere queste posizioni di lavoro perché le uniche disponibili.
Nella realtà quindi il titolo di studio serve solo per darsi un tono nel CV, tono che viene abbassato da un mercato del lavoro inadeguato.
La differenza tra gli atenei di appartenenza ha già un valore non ufficiale, ma reale. Chi si laurea alla Cattolica o alla LUISS ha una maggiore considerazione rispetto chi si laurea a Palermo, perché lo standard qualitativo che offrono quelle università è molto alto e per superare quel percorso è necessario uno sforzo in più. Quindi, nonostante il ragazzo palermitano abbia studiato per sua passione di più di uno della LUISS, verrà considerato meno capace, o al limite uguale, perché entrambi laureati.
Grazie a questo ragionamento l’abolizione del titolo di studio porterebbe come possibile conseguenza che la provenienza d’ateneo assuma un valore. Diventa un valore negativo per quelle università in cui non c’è voglia di competere e sforzarsi a migliorare.
Oggi la qualità di un’università (e quindi la proporzione di finanziamenti pubblici da intascarsi) dipende anche dal numero di laureati sfornati all’anno, ed è per questo che vediamo ad ogni sessione di laurea centinaia di laureati.

L’indiretto effetto di questa proposta dei Radicali dovrebbe spingere gli studenti a preferire le università che al fine della carriera gli garantiscono conoscenze e competenze di qualità, non “pezzi di carta”. Quindi le università che non vogliono fornire contenuti di qualità si svuoterebbero. Negativo? Solo per i sindacati-corporazionali alleate con il baronato per la salvaguardia di una poltrona in pelle di studente sotto il culo.

Oggi nei fatti il titolo di studi è stato già abolito, non è più garanzia di un posto di lavoro adeguato agli anni di studi ma è solo un paracadute di carta, che dopo essersi lanciato ci lascia cadere rovinosamente giù.

La miticizzazione del titolo di studio come “pezzo di carta” che ti assicura un buon lavoro è un gioco fasullo che va sempre a rialzo. Prima basta un diploma, poi un diploma tecnico, poi ancora una laurea, successivamente l’evoluzione del gioco ha previsto due stadi di laurea, triennale e specialistica e infine il master. Oggi se non hai un master non lavori (bugia) e vale più di un dottorato (tristemente vero, visto che il valore del dottorato è più vicino al valore ideale della carriera universitaria).

Questa miticizzazione del “pezzo di carta”, nella sua evoluzione 3+2 specialmente, non ha fatto altro che portare all’interno dell’università una percentuale altissima di diplomati, contro le loro reali competenze e volontà. Per lo Stato tutto ciò è stato un toccasana, allungando il parcheggio dei giovani all’interno dell’università li togliamo per un po’ dalla massa disorganizzata di disoccupati, affinché la disorganizzazione rimanga forte e duratura.
Le università costrette a sfornare titoli di laurea hanno agevolato gli studenti meno volenterosi abbassando lo standard qualitativo della formazione. Nessuno prende più un 18 a Lettere e Filosofia, al massimo il professore fa finta che lo studente non si è mai presentato, senza neanche bocciarlo ufficialmente sul verbale.

Difendere il titolo di laurea oggi è impedire di creare un sistema veramente meritocratico degli individui. Oggi i sistemi di reclutamento più meritocratici, dovendo per legge riconoscere il titolo di studio e il voto, mettono questi parametri alla fine del processo di selezione. Prima si fanno delle prove scritte e orali in cui è possibile che il laureato con 110&Lode non passi la prima selezione e il laureato con 103 invece sì.

Con un adeguato sistema di borse di studio e di tariffazione delle tasse di laurea in base al reddito, non sarebbe neanche sbagliato aumentare le tasse. Se la politica si impegnasse di più sull’articolo 3 della nostra costituzione – “Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali. È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese.” – gli studenti meritevoli supererebbero qualsiasi tipo di ostacolo impegnandosi con passione.
Un metodo, per esempio, per non penalizzare gli studenti-lavoratori potrebbe essere quello di pagare le tasse in proporzione e in relazione alle materie conseguite. Tale norma dovrebbe essere applicata a tutti gli studenti e non solo a quelli che hanno un contratto di lavoro, perché sarebbe solo pura ipocrisia, giacché è chiaro a tutti che quasi ogni studente universitario, nel corso della sua carriera, ha rallentato gli studi per qualche lavoro saltuario, in nero, solo per potersi pagare le tasse.
Ogni sistema contiene al suo interno la contraddizione, rimanere ancorati al vecchio sistema che non ha funzionato non è una cosa più saggia del mantenersi cauti e non rischiare un cambiamento culturale come il sistema meritocratico.

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