Speranza

di Alessia Ingrasciotta

Deepak e il suo negozio di tè

Shivji, detto anche il rasoivala, era il cuoco dell’ostello internazionale di Wardha, un paesino nell’entroterra indiano.
Tutte le notti tornava a casa dopo una lunga giornata di lavoro: si alzava presto al mattino, si recava in città, andava al mercato e comprava frutta, verdura e altri generi alimentari. Tornato alla mensa, lui e il suo collega preparavano la colazione, la servivano, pulivano, preparavano il pranzo e la cena e, dopo aver ripulito e sistemato tutto, mangiavano ciò che era avanzato per poi tornare ognuno a casa propria.

Una sera, alcune mie compagne ed io andammo con il rasoivala a casa sua: suo figlio Deepak- il ragazzo appena diciottenne che lavorava alla bancarella di tè subito fuori dal campus – aveva dovuto sottoporsi a un’operazione ed era a casa a riposare, così avevamo deciso di fargli visita prima di ripartire per l’Italia.

La casa era a circa un quarto d’ora a piedi dal campus.
Scoprimmo che in realtà si trattava di un’unica stanza, neanche molto grande, in cui c’era tutto, o meglio, tutto quello che serviva per la sopravvivenza di due persone: un letto a due piazze, una zanzariera, un ventilatore, un fornello a gas, un armadio, una dispensa. All’interno della dispensa, in un angolo, era stato ricavato un tempietto per la puja, l’atto di culto.
Pensai che nonostante lavorassero tutto il giorno gli abitanti di quella casa trovavano comunque il tempo di pregare. Sopra la dispensa c’era una mensola sulla quale, ormai impolverati, erano riposti uno zaino e una piccola valigia rattoppata, di quelle vecchie, rettangolari, come quelle che disegnano i bambini. Lì dentro probabilmente c’era tutto quello che era servito loro per venire fin qua dal Bihar, uno Stato notoriamente povero dell’India nord-orientale; trenta ore di treno per un futuro incerto, per un lavoro non sicuro, a tempo forzatamente determinato dalle nostre partenze.
Due spazzolini erano posati in una scatola di cartone attaccata col fil di ferro al muro, accanto alla porta. A terra riconobbi il barattolo ormai vuoto del miele che avevo comprato qualche settimana prima, e che avevo lasciato sul tavolo della mensa perché qualcuno lo buttasse via. Vicino al letto, un panetto di sapone blu per il bucato.

Quando entrammo nella camera, Deepak era semisdraiato sul letto, pallido e visibilmente sofferente leggeva un libricino intitolato “Rashtriya Geet”, Inno Nazionale. Accennando un sorriso gli chiesi di cantarcelo: cominciò timidamente, prima con voce flebile e triste, poi prese coraggio e continuò; interpretava le parole facendo ondeggiare la mano sinistra a tempo, davanti al viso. Quando ebbe finito lo applaudimmo e ci complimentammo con lui, e tra l’emozione e l’imbarazzo calò il silenzio.
Deepak, nostalgico, ci mostrò la foto della mamma e dei fratelli più piccoli. Pensai a quanto tempo fosse passato dall’ultima volta che li aveva visti, e mi vennero in mente le parole di suo padre poco prima, sul tragitto per arrivare alla casa, quando una mia compagna gli aveva chiesto il nome della moglie: “Il suo nome è Asha, speranza” aveva detto. “E io non ho più speranze di rivederla ancora”.

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