Un giorno a Burocropìa

Burocropìa è un paese, una realtà parallela in cui tutti, almeno una volta nella vita, si ritrovano impelagati. La sua origine e la relativa posizione geografica restano un mistero: appare e scompare in base alla classica ruota che gira (e fora) nella vita di ogni contribuente italiano.
Una città costruita sopra i fogli protocollo, percorsa da strade tracciate da moduli da compilare, ordinanze da firmare e verificare. Ci si arriva quasi sempre per colpa delle tasse da pagare, e molti, si dice, non tornano più indietro. Un limbo dai cieli grigi e lattiginosi sopra terre fatte di carta, sorvolate dagli F-24:  aerei del regime militare che controllano tutto.
Gli abitanti di Burocropìa non hanno un nome, ma solo un codice alfanumerico simile al nostro codice fiscale che viene elaborato fin dal primo vagito attraverso l’unico computer chiamato dagli abitanti Terminale, perennemente guasto. Tutto il resto è un timbra-firma-protocolla che impegna ogni singolo abitante. Niente sbattimenti quindi per la scelta del nome né diatribe familiari per Rebecca o Aristide.
In verità a Burocropìa si litiga molto, ma solo per iscritto, e comunque entro e non oltre il 27 del mese.

Io a Burocropìa ci sono finito come Alice nel paese delle meraviglie o, meglio,  meravigliandomi prima e bestemmiando in arabo-normanno poi, sopra la tassa dei rifiuti della mia vecchia abitazione: 400 euro di ricordi fatti di plastica, carta, organico ed indifferenziata con i cari saluti del buon paesello dall’aria buona.
L’ufficio in cui io e altri disperati ci siamo ritrovati è uno dei più cattivi: l’Ufficio Tributi, uno dei luoghi più fantasiosi (ma non troppo) di Burocropìa. Può capitare, ad esempio, di dover pagare per quattro un’abitazione occupata solo da due persone: “Io l’ho detto all’impiegata già nel 2013, io e mia moglie abitiamo da soli e l’unica munnizza che deve pagare, come mi ripete spesso mia moglie, qui sono io”.
Si scherza (?), cercando di stemperare l’attesa scandita da un fuso orario implacabile, quasi extraterrestre, dove i minuti sono ore e le ore giorni.

Eppure sono qui, con le palle enormi, dentro una piccola stanza, circondato da gente diversa da me che puzza di umanità e stick per le ascelle, con la stessa identica bolletta in mano. C’è una mamma con un bimbo di quattro anni al massimo che gioca ininterrottamente da almeno due ore (terrestri) con il cellulare. Per un attimo mi si materializza l’immagine (o la speranza) del cellulare che esplode in faccia al bambino e quella, un po’ più umana, delle piccole dita che rimangono attaccate al display per via del calore… Tutto ciò non accade e quando, recuperata la fievole speranza, penso che la batteria si sia scaricata, la brava mamma tira fuori dalla borsa il caricabatterie, per la gioia dei presenti in attesa e del piccolo che, mi sembra, emetta un bip: “Ecco qua, Aristide… Vedi? Adesso funziona! Santo cellulare!”.
Basito, rivolgo lo sguardo altrove cercando uno spigolo vivo o un pensiero analogico e condiviso: “Ma cazzo, spegni quel cazzo di telefono del cazzo!”, lo leggo in una smorfia di un distinto signore dai capelli bianchissimi e la faccia rossa come la testa di un cerino; è irritato, ma sottobraccio tiene la sua vendetta più grande contro Burocropìa, e pare pensare solo a quello: “I signori che si nascondono dietro quella porta dicono che si debba pagare per un regolamento comunale, ma i regolamenti non sono leggi e le tasse non possono essere pagate, specie se abrogate per l’ordinanza X del 2001, ai sensi della legge 312, comma 3, come dalla lettera dei Corinzi 9/bis…”. Viene prima di me, e dentro la mia anima già piange: sono due ore che aspetto e ho ancora 400 euro da pagare. Non riesco a trovare pace: com’è potuto accadere, visto che è tutto così DIGITALMENTE-CORRETTO? Ho fatto il cambio di residenza tre mesi prima dell’emissione della fattura, perché devo perdere il mio tempo in un giorno di agosto, con le cicale che continuano a prendermi per il culo, ripetendo all’impiegato di questo piccolo comune che mi sono trasferito a Palermo?

Intanto la fila s’ingrossa come il fiume pieno di spazzatura che lambisce la collina dopo la tempesta di sconti del centro commerciale. Dalle scale che portano all’ufficio si affaccia una signora in canottiera e sandali, accompagnata da un non identificato omone dotato di panza e canottiera: “È questo l’ufficio ra munnizza?”. Qualcuno risponde per le rime: “Siamo tutti munnizza, aspettiamo il pullman per Bellolampo”. Qualcun altro fa satira e aggiunge, chissà, un po’ di sana autocritica: “…molte persone in verità lo sono” e giù risate.
È già passato l’orario di chiusura, eppure la gente continua ad arrivare. Si chiude la porta sul tempo di recupero e chi c’è c’è: l’ufficio chiude alle 12 ma si va ad oltranza, come per i Golden Gol, un briciolo di umanità tra le scartoffie.

Nel frattempo, l’assemblea decreta che la differenziata si deve fare e che le tasse sono troppo alte, che qualcuno non si lava, che giugno e settembre sono i migliori mesi dell’anno e che Aristide non è un bambino ma un’APP scaricata dalla madre che tiene il cellulare in braccio e che comunque, anche se l’estate è stata mite, fa comunque troppo caldo.

La porta si apre e si chiude, finalmente arriva il mio turno.
“Nome?”
“GGLMRCXXXXXXXXXX…”
“Bene, verifichiamo sul terminale… È lento, sa… siamo pochi, molti vanno in pensione e lasciano il grosso del lavoro al Terminale che non ha voglia di fare un cazzo… altro che digitalizzazione!”
L’impiegata è duramente provata e a rallentare la mia pratica ci si mette pure una vespa in formato A4 entrata da chissà dove; finalmente si arriva ad un accordo: pagherò il 50% in meno ma non prima di aver fatto protocollare di mio pugno la pratica al Comune presso l’ufficio protocollo sito in via dei timbri, piano primo, stanza 2/bis… aperto, ovviamente, dalle 15:30.
“Eh, non ce la fa mica sa… Sono già le 14, vada oggi pomeriggio altrimenti deve tornare nei giorni dispari dei mesi pari, e non è un bello spettacolo per via dei boschi di archivi che bruciano: montagne immense di carta date alle fiamme dai precari creati dalla digitalizzazione…”
Esco da vincitore, so di essere uno dei pochi e forse riesco a ritornare entro oggi.

L’avventura continua…

(Articolo scritto a mano durante l’attesa di quattro ore, quarantaquattro minuti e ventitré secondi.)

P.s. Burocropìa è una parola inventata, partorita grazie all’efficenza della burocrazia italiana, un po’ di utopia ed un briciolo di ottimismo.

4 thoughts on “Un giorno a Burocropìa

  1. “Siamo tutti munnizza, aspettiamo il pullman per Bellolampo” è un’immagine bellissima!
    Bravo, Marco. Mi è piaciuto molto questo pezzo. Aspettiamo il seguito :)

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