#sci-fi – È una vita che non piove

di Dora Pistillo

Torna la luce sulle cose di tutti i giorni, ma sono i giorni del passato, è la luce dei ricordi che torna qui e mi porta a visioni lontane, via Barberia percorsa da un bus, passanti e curiosi dietro gli scuri di una finestra, la gonna sbiadita che indosso e una maglia e una scarpa con un buco nella suola. Gira e gira le pagine scritte e lo sguardo si ferma sui dettagli come su singole parole che dicono e non dicono, ammiccano e rimandano, sottolineano e suggeriscono timide o sfacciate. Gira e gira, tornano le note ascoltate al passare per la porta aperta di un caffè in cui lavorava qualcuno vestito del grigio di ogni giorno dedicato all’abitudine, le maniche voltate e il collo appena aperto, le righe forse, o la tinta unita, la riga dei capelli e le orecchie un po’ a sventola. Gira e gira il passato, il presente e il futuro sono mescolati e densamente vorticano a una lentezza inossidabile. Autenticità è un mistero e un’audacia che non esiste. Ancora via del Collegio di Spagna e i vicoli a venire di un pomeriggio senza risparmio passato a respirare l’aria e a guardarsi in faccia per la prima volta.
Gira, gira, gira, gira. La trottola che porta istante dopo istante a incontrare, stringere mani, sentire odori irripetibili, come le parole di amanti improvvisati nell’androne di un palazzo mentre lei solleva la maglia di lui per baciargli la spina dorsale vertebra dopo vertebra.
Silenzio, rumore, fruscii, sussurri, canti stonati di rivoluzione, poesie e rime di chissà quale poesiola su Cristoforo Colombo, consigli e pettegolezzi, ammonimenti severi e bugie biascicate, sternuti starnazzanti e risa fragorose. Danzare su gambe forti o sottili, sguardi rivolti a aeroplani e suoni di clacson tra i fumi delle sigarette. Tremare inzuppati di pioggia, ridere a crepapelle per una propria gaffe, coinvolgere nella danza passanti stupiti, ben vestiti, sedotti, seducenti, paltò verdi di loden, lenzuola stropicciate e sudate da ventenne coi capelli arruffati a luglio, gli esami preparati di notte con le caffettiere colme e condivise in cambio di un piatto di spaghetti. Le finestre aperte e il bisogno di respirare.

Vedere la vita da un oblò, mentre si prende consapevolezza che sono gli ultimi respiri, mentre si rimpiange la sensazione della sabbia scorsa tra le mani, mentre le uniche cose più vicine all’umanità che si è conosciuta e di cui si è stati parte sono i materiali contro cui si scontra il mio corpo, realizzati su un progetto che mi fa tornare alla mente l’uomo vitruviano, i progetti di macchine volanti di Leonardo e il suo amore per gli uccelli, il cielo e le altre cose e constatare che è una vita che non piove, non per come conoscevo la pioggia. Tutta la pulizia che mi circonda, tutto questo candore che avvolge la mia mente e non lascia segno alla mia fame di meraviglia, di sensi assetati e avidi che cercano musica e tracce di pittura sparsa con le dita, di carezze e graffi di gatto.

Invece oblò. Buone maniere, compostezza, una selezione dei viaggiatori che non lascia scampo all’inventiva e alla fantasia, tutto silenzioso, tutto preciso, tutto adeguato, tutto controllato e calcolato. Tutto tranne l’imprevisto. Un imprevisto ineluttabile e divino, come divino era l’errare umano prima della confusione con le pretese di perfezione. E mentre prende corpo una tragedia umana, si comprende che nulla in realtà è vero. I nostri ricordi, la nostra esperienza individuale è l’unico senso della nostra presenza come esseri senzienti.
Questo squarcio alla struttura inossidabile e progettata per l’eternità in un istante porta a ripercorrere il proprio tragitto che in poco meno di un secolo ha condotto dalle stalle alle stelle e a una sfumatura di grande nostalgia per il fetore delle prime a cui alla fine si poteva ancora attribuire un significato; è la liberazione dall’empasse frigida e immacolata dell’ultimo istante.
Gli ultimi nodi della mia mente, le ultime connessioni vanno alla follia di pensare che una macchina lanciata nello spazio punteggiato e inesplorato potesse risolvere il mio dolore. Pensare che recidere il contatto fisico con le cose amate e perdute potesse dare sollievo allo spirito ferito. Questo buco nero che devia il percorso del mio passaggio è in realtà la natural burella di un percorso al contrario che dal paradiso conduce alla sofferenza senza tempo e immoto. Robot incorruttibili e dai modi infallibili, luce progettata per mantenere in perpetua esistenza le forme di nutrimento di base, sintesi di acqua che non disperde il respiro, tutto perfetto, tutto circolare e perfettamente integrabile in una economia chiusa e utopica. L’uomo ha realizzato il suo destino ribaltando l’ideale perseguendolo. E l’incidente imprevisto, lo squarcio inaspettato della perfetta immobilità che infine salva la mia anima dal dolore inconoscibile e incalcolabile. Dio forse esiste e forse ha pietà per le sue sciocche creature disperate.

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