“È domenica pei poveri e signori
Ognuno può dormir tranquillamente
Né clacson, né sirene, né motori
Si sveglia la città più dolcemente”
Oggi è domenica.
Avverto un sentore di nostalgia… Da “nòstos” (ovvero “tornare a casa, o alla propria terra natale”) + “algos”, che si riferisce invece al “dolore, alla sofferenza” dello stare lontani. Nostalgia del “ritorno”, dunque, mito ulissiaco per eccellenza del desiderare ideali passati, cui però, proprio come per Odisseo, si aggancia anche l’impossibilità di tornare davvero al passato, alla casa dell’epoca passata così come l’avevamo lasciata.
Interessante lasciar andare la mente a cosa potrebbe essere questa nostalgia. E d’altronde non è difficile…
Mi vengono in mente le gite domenicali a Castelbuono ad esempio, robe pre-età adulta; e i racconti delle transumanze della famiglia del mio compagno, da lui descritti come bellissimi momenti. E le mie immagini della famiglia paterna riunita intorno al pranzo domenicale con la pasta al forno o la salsa fatta col passapomodoro, il basilico fresco e il mal di schiena, su cui grattuggiare la ricotta salata di paese; accanto al piatto il pane buono di Monreale e alla fine i cannoli. Ricordo anche le arrostite domenicali a San Martino o quei pranzi in cui le sedie non bastavano per tutti e c’era la gara all’ultimo sangue per chi avrebbe leccato la pentola di besciamella; da piccoli tra cugini; da grandi tra compari di comitiva, cui si univa l’amica Laura che mangiava tanto quanto un maschietto adolescente (senza ingrassare però).
Più indugio nei ricordi, più il desiderio diviene “melancolico e violento”, legato a “oggetti cari” difficili da rianimare anche solo con la mente. Le famiglie, infatti, si sono spaccate per ego-centrismi o ego-ismi. Il mio compagno è a lavorare. Io mi godo il sole con Ginetta (la mia gattona), ma provo dell’ansia perché la settimana è stata così frenetica che ho moltissime cose di casa e di lavoro arretrate da fare.
“Mi oppongo, vostro onore!”, sciò ansietta molesta!
“E così sia”, dico al sole che finalmente bacia la bellezza di piano Margi e del mio giardino; ma ciò significherà più stress domattina. “A che prezzo?”, mi chiedo… Perché a questo mondo in cui troppo spesso il tempo è “produttività”, tutto ha un prezzo. Lo scrivo con rigurgito e nausea, ma così è.
E quindi sarebbe domenica. Ma “domenica NON è sempre domenica”… Cambiando la cultura, cambia anche il senso dei giorni e delle parole. Queste domeniche non prevedono sacralità. Non esiste famiglia, restiamo spezzettati, troppo stanchi e chiusi per riunirci, quando siamo fortunati a non lavorare; e comunque ormai la domenica, per chi non fa un lavoro impiegatizio, è il giorno dello shopping o della spesa o dei doveri arretrati, il che, per converso, obbliga i lavoratori dipendenti a fare i turni per garantire i servizi…
…Cambiando la cultura, cambia anche il senso dei giorni e delle parole.
Domenica, infatti, sarebbe tradizionalmente (per noi popoli di impianto cristiano) il giorno festivo per eccellenza, quello consacrato alle divinità, da “dies” (sottinteso) + “dominus”: “giorno del signore”. Un giorno festivo, quindi, dal latino “festivus”, ossia “piacevole, allegro, leggiadro”, a sua volta derivazione di “festus”: “solenne”, giorno in cui vige la parziale o totale astensione dal lavoro, per motivi di interesse collettivo motivato da una ricorrenza religiosa, civile, famigliare, o da un fausto avvenimento. Il termine “festa” deriva a sua volta da “‘Estia”, dea greca della casa e del focolare domestico, quindi vuol dire propriamente “giorno del focolare, del banchetto”.
Quando la tv era in bianco e nero e forse qualcosa del genere c’era ancora, così suonavano le corde vocali di Mario Riva:
Mia nonna questa me la cantava, come tutte le canzonette romantiche su cui credo sognasse qualcosa, lei che era una donna del boom economico che la domenica ha sempre lavorato al ristorante di famiglia e che – quando a 80 anni non ce la faceva più – si disperava, invece di approfittarne per godere del tempo libero e del calore familiare. Calore e unione familiare probabilmente distrutti da questo stile di vita folle, a-relazionale.
Mia nonna, in effetti, questa me la cantava, ma mai di domenica, giorno non festivo in cui lavorava sempre. Tuttavia, in parte la giustifico, poiché, avendo un ristorante, la domenica si dovevano garantire i pasti più “assistimati” alle altre famiglie, comitive, etc. Ma noi? Noi idem, figli e nipoti di questo identico stile di vita potenziato “n” indefinite volte.
Per noi non ristoratori, che motivo c’è di tenere aperti i negozi di domenica? Se non fosse che ciò giustifica i massacri lavorativi di tutti gli altri giorni? O i miti del tempo libero come “acquisto” e della felicità come “consumo”?
“Domenica NON è sempre domenica”, e precisamente NON è più quella domenica; inutile prenderci per il culo e nutrire nostalgie… Cambiando la cultura, cambia anche il senso dei giorni e delle parole. O comunque, meglio dirsi che il Dominus da glorificare oggi è un altro, e poi valutare se e come ci stiamo, dentro queste nuove tradizioni domenicali.
O magari, meglio di no.
Domenica è domenica per chi lavora in ufficio dal lunedí al venerdí. Per noi lavoratori del terzo settore domenica è un giorno lavorativo, un giorno dove i tuoi amici (quelli che lavorano in ufficio) organizzano le “manciate” e tu non ci puoi andare. Le domwniche erano per noi domeniche quando andavamo a scuola. E allora sí che quel giorno era sacro!