Le voci di dentro e quelle di fuori

di Andrea D’Agostino

Gettiamo l’occhio per un momento giù in strada. È la prima ora intorpidita di un pomeriggio d’autunno. Il marciapiede vuoto, incupito dalla spenta luce del sole già basso, sonnecchia battuto dalla brezza gelida. Una furibonda lite fra cani irrompe in questo silenzio desolato. Ringhiare feroce, lamenti acuti, rantoli, strisciare di artigli contro il cemento. Oggetto dell’aspro contendere: un’anca di pollo mezzo rosicchiata. Uno dei due randagi riesce nell’intento e strappa l’osso liso al suo disgraziato compagno di vagabondaggi: è più piccolo di lui, è magro e debole e non può difendersi.
Spostiamo lo sguardo annoiato. Dopotutto, pensiamo, è solo l’ennesimo brutale atto di prevaricazione riassunto nel motto spietato di “legge del più forte”. È istinto di sopravvivenza. L’immutabile ripetersi di feroci ruberie comune a tutto il mondo animale fin dall’alba dei tempi. Ma l’uomo, fa eccezione? Pensiamoci un po’ su.
Immaginiamo per un attimo una piccola comunità umana, accampata chissà dove migliaia di anni or sono. È una comunità in divenire. L’uomo primitivo ha lentamente imparato che la vita in gruppo è la scelta più conveniente: garantisce maggiori possibilità di difesa dalle belve e dalle calamità naturali, maggiori chance di riproduzione, maggiore efficienza nelle tecniche di caccia. Di colpo, dunque, per l’uomo muta il bene principale da difendere: da se stesso e la propria prole, diventa l’unità del gruppo, la comunità; nasce così la prima società. Tutti gli sforzi della comunità stessa vanno nella direzione di salvaguardare l’esistenza della neonata società. Si creano piccoli nuclei aggregativi artificiali, inglobati in organismi sociali più complessi secondo strutture concentriche (nucleo familiare, famiglia allargata, clan, ecc.) o orizzontali (caste, classi, censi).

Parallelamente, comincia un processo di creazione e consolidamento dei vincoli che legano i singoli individui alle forme che va prendendo la società. Ne conseguono l’emarginazione per chi non ne segue le norme e le elargizioni di benefici (sotto forma di assegnazione di ruoli-chiave, riconoscimento di fama, onori) a chi invece vive secondo i dettami della società. Non importa quali siano le espressioni religiose, le prassi quotidiane, le norme sociali o le leggi concepite, importa che delle norme ci siano e che tutti le accettino. Qualsiasi infrazione dei singoli metterebbe in pericolo l’intero assetto della società e dunque, per transitività, l’intera specie umana.

Si crea dal nulla insomma, con dinamiche ben descritte da antropologi e giusnaturalisti, una società. E questa ha un solo obiettivo – è bene ricordarlo – sopravvivere. È infatti l’istinto di conservazione della specie ad aver dato il primo impulso alla scelta comunitaria. Ha spinto l’uomo verso la direzione in cui questi intravedeva maggiori margini di sopravvivenza. Le conseguenze di questo circo creativo sono meravigliose e devastanti: ancora oggi continuiamo a vivere come se fosse in pericolo la sopravvivenza della specie, continuiamo cioè a guardare storto chi esce dagli schemi, chi si chiama fuori dal teatrino della società: sono barboni, reietti, “strani”. Siamo ancora imbrigliati in logiche che ci siamo imposti quando la sopravvivenza della comunità significava davvero la permanenza dell’essere umano su questa terra, ma non ci rendiamo conto che ora, su questa terra, siamo ben sette miliardi. Viviamo un immenso auto-inganno.

L’istinto di conservazione della specie agisce in opposizione a un altro istinto primario, l’istinto di sopravvivenza individuale. Entrambi sono comuni a tutte le specie animali e comunemente vediamo il primo primeggiare sul secondo. L’istinto di protezione di una madre verso i suoi piccoli è, ad esempio, tanto forte da portarla al sacrificio. Talvolta l’istinto di conservazione della specie trasla verso una tendenza alla tutela del proprio gruppo sociale, ma è questo un passaggio solo apparente: essendo la comunità la sola in grado di garantire la riproduzione (pensiamo alle api o alle formiche e alla funzione dell’insetto “regina”), essa è l’unica che garantisce la conservazione della specie. Qualcosa di simile deve essere successo anche ai primi gruppi umani: in comunità si gode di maggiore sicurezza per la prole e di maggiori possibilità di trovare un compagno per riprodursi. Ecco come l’stinto di conservazione della specie umana ha dato vita alla società. Ed ecco come è stato possibile l’affermarsi di una scelta contraria a un istinto primario, quello di sopravvivenza, profondamente individualistico: seppur nascosta sotto la falsa veste di “scelta della ragione”, tale scelta nasce in realtà dal principale degli istinti, quello di conservazione della specie. È vero, il secondo istinto primario, quello di sopravvivenza, ha talvolta collaborato al processo (poiché maggiore in gruppo è anche la sicurezza dei singoli), ma il più delle volte è stato (ed è) soverchiato e zittito. La vita del singolo viene infatti consacrata al benessere del gruppo. E il mito del “sacrificio”, non a caso, è fondamento sia in campo civile che religioso: bisognava creare e sostenere il valore di un gesto utile alla società ma contrario agli istinti individualisti. L’uomo è ripetutamente chiamato a sacrificarsi proprio perché per istinto tende a non farlo, ma non sa che tale richiamo al sacrificio si basa proprio sull’altro istinto (quello di conservazione della specie) il cui ruolo fondante non viene riconosciuto. L’uomo pensa di aver creato la società con la ragione, in realtà, ha usato la ragione per mascherare e plasmare una creazione dell’istinto.
La società, per assicurarsi la propria sopravvivenza, deve fare in modo che ogni istinto individualistico, di rottura, ogni possibile elemento destabilizzante venga imbrigliato. Questo costante lavorio auto-somministrato ha funzionato tanto bene da trasformare i vincoli stessi che legano l’uomo alla società in “valori”, considerati universali perché ritenuti innati quando altro non sono che falsi istinti o istinti “indotti”. Pensiamo al valore della “famiglia” o a quello di “patria”. L’istinto materno è primario, presente fin dallo stato di natura, l’istinto a farsi una famiglia è un istinto “indotto”. Se per istinto si è portati alla poligamia, la società, che deve tenere stabile la cellula astratta della sua struttura, la famiglia, crea il “valore” della monogamia. Non abbiamo mai distinto nella giungla delle voci che ci guidano, le voci di dentro (gli istinti) da quelle che in realtà vengono da fuori (gli istinti indotti).

Dunque, la partita si gioca nel complesso rapporto fra istinti primari, istinti indotti (riflesso del gruppo sul singolo) e scelte consapevoli (espressione della libera volontà individuale). Il lavoro su se stesso compiuto dall’uomo per adattarsi alla vita sociale lo ha portato, da un lato, a castrare le velleità individuali, dall’altro, a creare anche qualcosa di meraviglioso: l’altruismo, l’aiuto disinteressato, la solidarietà. Fuori dallo stato di natura, fuori cioè da un mondo dominato dalla spietata arroganza dei forti, in cui il solo amore possibile era quello di una madre verso i propri figli (unica forma originaria dell’istinto di conservazione della specie), l’uomo ha iniziato a riconoscere l’altro non solo come un avversario, ma come un compagno. Nel mondo greco antico vediamo, ad esempio, come i doni allo ξένος, i doni d’ospitalità, siano intesi come un simbolo consapevole di civiltà, in netta contrapposizione alle usanze dei βάρβαροι. Segni di civiltà sono anche i gesti disinteressati del διδόναι (“dare”), del παρέχειν (“offrire”), e del δέχεσθαι (“ricevere”), che di questi è il vero candido contraltare. Questi sono i verbi della società. Si oppongono al verbo che meglio esprime i rigurgiti negativi dell’individualismo: il “prendere” inteso come “togliere ad altri”, come “strappare via”: ἁρπάζειν. L’individualismo, d’altra parte, con le sue azioni volte all’interesse egoistico ha svolto un ruolo chiave, inconsapevole, nello sviluppo e nel progresso delle società, come sostiene John Stuart Mill. Vediamo dunque come la genesi della società con il suo grande inganno, se da una parte potrebbe portare a simpatizzare per gli stinti individuali spesso frustrati e zittiti, parimenti ci mostra come le grandi conquiste raggiunte dall’uomo siano proprio conseguenze della scelta di una vita comunitaria.

L’equilibrio instabile fra vita sociale e spinte individualistiche ha reso sanguinosa e difficile la storia delle forme comunitarie a prescindere dalle forme istituzionali prese; ma l’uso della ragione indirizza l’uomo verso un approccio via via più maturo e saggio. È il problema di gestione “interna” degli istinti primari e degli istinti indotti. Se però, come dice Hegel, la storia dell’uomo è un “immenso mattatoio”, lo dobbiamo soprattutto alla gestione del rapporto di ciascuna società con le altre, del rapporto cioè con l'”esterno”. Simile a quello del singolo individuo con gli altri individui nello stato di natura, lì dove ancora vige la “legge del più forte”. C’è allora da sperare che l’istinto di conservazione della specie agisca a un livello più alto, super-societario, riconoscendo la pace fra le nazioni come condizione necessaria all’esistenza umana sulla terra.
Siamo o no allora come quei cani in lotta per un osso? Sì, per natura, ma no, per natura.

One thought on “Le voci di dentro e quelle di fuori

  1. Un articolo che offre un ottimo spunto di riflessione, per questo mi sono permesso di condividerlo su facebook…Una volta tanto, questo mezzo può essere usato nella giusta maniera e cioè offrire alla gente qualcosa di sensato su cui riflettere!
    Complimenti per l’articolo, che nonostante gli approfondimenti filosofici risulta facilmente comprensibile e leggibile.
    P.S. Mi permetto di uscire due righe fuori tema e colgo l’occasione per fare gli auguri di buone feste a chiunque leggerà questo commento! *:-)

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