Lavoro, dunque sono

orario_di_lavoro“L’Italia è una Repubblica democratica, fondata sul lavoro” (Art. 1 – Costituzione Italiana). Parole oggi sulla bocca protestante di tutti. Ma – chiederei io a questi tutti – cos’è ‘sto famoso lavoro? È una pretesa? È un diritto o un dovere? È vita o è morte? E qual è l’ethos che lo orienta?
– Il mito biblico parla del lavoro come di condanna, peso, fatica indesiderabile. Non a caso, il termine “lavoro” deriva dal latino “tripalium” = “strumento di tortura” (da qui il nostro sempre infelice “travagghiu” siciliano!) ed indica la punizione del cattivissimo Adamo per il peccato originale: da allora – ahilui! – dovrà guadagnarsi da vivere col sudore della sua arsa fronte.
– Altra storia per la fisica, in cui il lavoro si definisce “F (forza) x S (spostamento)”, dove per “forza” intendiamo la fatica che serve a produrre un qualche effetto o prodotto.
– Altro giro, altra co(r)sa: giuridicamente, il lavoro è una prestazione svolta dietro compenso, gestita da un contratto. 
Infine, ma non da ultimo, per il sacro Freud il lavoro è, insieme alla capacità di amare, una componente imprescindibile della salute psichica. Il lavoro è infatti antropogeno, tipico della razza umana, nel senso che, attraverso esso, l’uomo realizza la parte più umana di sé. In quest’ottica, non è legato solo al denaro; esso è la misura dell’uomo! Ed è un valore in sé libero, creativo e universale (NON forzato, ripetitivo e unilaterale), che porta alla responsabilità e all’auto-realizzazione.
– Ma, dulcis in fundo, per la collettività il diritto al lavoro è spesso semplicemente “il diritto a POSSEDERE un lavoro”, una richiesta di assistenzialismo e di scambio “lavoro –> picciolo”. È così che “avere un lavoro” arriva a equivalere ad avere uno stipendio e non a svolgerlo in modo soddisfacente e felice!

Ho conosciuto persone abbiliate dal lavoro tanto anelato, come distrutte dalla disoccupazione dilagante. Amici validissimi, fidanzati, io stessa, moltitudini di genti in grado di mettere in crisi la loro stessa identità per via dell’assenza di una degna occupazione. E poi individui disposti a svendersi, a fare 3 lavori malpagati e malriconosciuti, di cui uno notturno, pur di arrivare alla soglia degli 800 euro e del burn out. O ancora gente zingara alla ricerca del proprio posto (di lavoro?) in Italia e all’estero. E, immancabili, persone depresse, gettate in un fondo di letto, non in grado, per la depressione-da-mercato-del-lavoro-saturo, di farsi la barba, uscire e accaparrarsi un posto da barista o da scaricatore di porto. Senza dimenticare le patologie da mobbing, da stress lavoro-correlato, etc.

Sfugge qui il nesso tra tutte queste faccende. E torno allora, per ritrovarlo, alla domanda di base: ma noi… perché lavoriamo? Perché è così importante “AVERE” un lavoro qui ed ora, alle odierne condizioni? Perché non torniamo a fare i cacciatori-raccoglitori di bacche e cinghiali sul Monte Piddirino?

Forse perché (troppo) spesso per convenzione il lavoro è chiamato ad essere la nostra prima fonte di identità e di riconoscimento sociale; e noi ce la accolliamo anche quando non dobbiamo sfamare voraci picciriddi poiché questo è l’ethos che ci guida. D’altronde, è senza dubbio più facile trovare qualsivoglia travagghiu che noi stessi! Ché tanto “il lavoro nobilita l’uomo”, “se questo è un uomo”. Così prima mi impiego e poi capisco che faccio, chi sono, dove vado. Perché “io sono il mio lavoro”! “Lavoro, dunque sono”, anche se lo detesto! Cosicché esso, il Re-Lavoro, viene puntualmente acclamato, desiderato, ricercato, lamentato… più di ogni altra cosa, seppur spesso scevro di aspettative oltre lo stipendio, di ambizioni realistiche oltre l’Iphone e la manicure, di ricchezza interiore oltre le borse da 800 euro (ho scoperto giusto l’altro dì che ESISTONO!). Tanto che, da ponte per la felicità, per le ricchezze relazionali, per il buon tempo degli affetti, esso diviene, infine, fine a se stesso.“Si perde così facilmente la propria humanitas per assumere quella dettata dall’habitus” (G. Profita).

Tuttavia, al di là di Auschwitz, “il lavoro rende liberi!” per davvero e se diventa negativo dipende da noi uomini, non dal lavoro in quanto tale! Il punto è allora: cosa c’è dietro, oggi? Probabilmente quella perversione per cui esso è epurato della sua componente affettiva in virtù del suo scopo: produrre! Nel 2016, il lavoro è subordinato all’economia e al profitto, ai suoi culti 24/7 e ai suoi ritmi massacranti. Noi travagghiamo! E per intanto siamo proni a un’idea che NON È “amore nel lavoro” e “per il lavoro”, ma per l’accaparramento: mettiamo in atto (giustificandoli!) comportamenti rapaci, individualistici, narcisisti; lavoriamo spesso senza attenzione ai sensi, ai mezzi e ai fini; lavoriamo, insomma, per guadagnare, coerentemente al modus capitalistico di stare nel mondo! …Forse, allora, il bandolo della matassa è questo: io “sono” NON il mio lavoro, ma IL DENARO che possiedo attraverso quel lavoro.

C’è però qui un unico problemino: che non siamo macchine intellettual-cognitive e o muscolari. Ciò che produciamo è fondamentale! La felicità È FONDAMENTALE! Come anche la salute, che per Freud è la capacità di amare e di lavorare insieme. Se scotomizziamo le due cose, nasce il disagio psico-sociale, lo scarafaggio kafkiano, mostro poiché schiavo di logiche DISumane. …Vi consta? A me sì. E penso che esistano giorni, mesi, ere, in cui siamo tutti questo scarafaggio. Perché nell’oggi del liberismo, in cui tutto è in vendita, il mercato del lavoro è un mercato delle vacche in cui si può fare carne da macello anche di noi stessi. Perché nell’adattamento e nella DISumanità che spesso sposiamo inconsapevolmente c’è un continuo mortificarsi. …Questa è l’alienazione umana, al di là di Marx. Questa è la vera mortificazione. Questo è il lavoro che diviene, da vita, un prodotto commerciale che nega dignità, piacere, essere, amore, riconoscimento.

«Lavoratori, buongiorno. La direzione aziendale vi augura buon lavoro. Nel vostro interesse, trattate la macchina che vi è stata affidata con amore. Badate alla sua manutenzione. Le misure di sicurezza suggerite dall’azienda garantiscono la vostra incolumità. La vostra salute dipende dal vostro rapporto con la macchina. Rispettate le sue esigenze, e non dimenticate che macchina più attenzione uguale produzione. Buon lavoro.» (“La classe operaia va in paradiso“).

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