Grandala coelicolor

di Dora Pistillo

All’improvviso questa foto che ritraeva una Grandala coelicolor, un uccello dalle piume blu. Incredibile, vero? Asiatico, come fosse magia. E un colore ed un lieve movimento del piumaggio che istantaneamente mi riportano a momenti freddi a contemplare fin dove potesse spingersi l’uggiosità di un cielo olandese. Mani livide con i polpastrelli secchi, piccole ferite attorno alle unghie, i segni di una scarsa affezione al proprio corpo e la mancata colazione di ogni giorno. “Non mangi così tanto, come mai sei grassa?”. Cosa poter rispondere a tanta schietta innocenza?
Allora voltai il viso e trovai i passi per raggiungere la scala mobile, scendere e scendere, un mosaico di sirene che indicavano il livello dell’acqua. Scendere e scendere, l’odore dei ricordi.
A volte non so se li ho immaginati, quei momenti, o se li ho vissuti davvero. A volte la solitudine mi sembra un alibi necessario per non dover spiegare le emozioni di ogni istante. Forse alla fine dei nostri giorni ci verrà chiesto solo se abbiamo amato. Anche in quei momenti sarò confusa e avrò incertezze. Ma le piume di un Grandala coelicolor mi riportano a quel mattino freddo, al berretto che forse mi dava un’aria interessante, al collo del maglione che aggiustavo perché non cedesse scoprendomi le clavicole. Le scarpe consumate, il passo energico e spietato, i polpacci sforzati al massimo per raggiungere altri meriti con me stessa. Ma amavo. Amavo con tutta me stessa, in silenzio, respirando, inalando umidità fredda e soffiando aria calda dal naso per scaldare le narici. Le mie orecchie. I suoni dei miei passi, i suoni delle poche persone che incontravo per strada, le mani strette nelle maniche e affondate nelle tasche. La sciarpa dimenticata. L’odore buono che sentivo nell’abitazione lasciata e che mi accompagnava tutto il tempo.

Entrare in una caffetteria, ordinare un caffè, scambiare brevi battute inutili con il barista di turno che sembra una comparsa raccattata all’ultimo momento e infilata dietro al bancone per incespicare in frivolezze comuni. “Ma chi sono io per giudicare il tuo operato e infine te, buon uomo?”.
Dove sono io e dove sono le persone che normalmente accompagnano i miei giorni? Ora capisco il perché di questa sensazione di mattino freddo, davanti al Grandala coelicolor. Ci sono dei piccolissimi puntini bianchi, come fiocchi di neve.

E la corsa a cercare il traghetto giusto, la direzione giusta, attraversare un paese straniero, che è diventato familiare, il suono della voce di ogni autoctono che mi sembra così vicino. Capire a distanza di anni e di confini, un accento che sta parlando una lingua non sua. Un po’ mi manca l’Olanda. Mi mancano le note che coglievo nella quotidianità, le cose che non capivo e quelle che avvertivo come si avverte un retrogusto da comprendere.
Mi manca anche un po’ il disagio di fronte a un amichevole modo che non sapevo gestire. Che mi faceva sentire inappropriata e che percepivo come immeritato. Che disagio, che voglia di silenzio e di solitudine, ma al tempo stesso di mescolarmi. Rendermi conto che in Olanda non ho mai veramente vissuto, mi sono arrabattata, sono stata ospite, un’ospite generosamente e inspiegabilmente accolta. Avrei voluto avere con me qualcuno del mio nucleo originario, qualcuna delle persone che chiamavo “amica” o “amico” per spiegare cosa stessi vivendo. Le emozioni, ciò che viveva la mia pelle, che vivevano il mio naso, la mia lingua, i miei muscoli, il mio respiro, i miei capelli, i miei occhi. Le porte con le maniglie di alluminio, le finestre ampie con gli angoli opacizzati dalla condensa, il linoleum dei pavimenti delle case modeste e le ampie sequenze di pareti a mattoni. I negozi di seconda mano, le abitudini di persone che vivono con parsimonia alla ricerca di allegria, di semplicità e di calore. Cercare infine le tracce di scarpe da lavoro, una giacca un po’ esausta, l’odore su una maglietta rossa, un gatto abituato ad appisolarsi sotto o dentro le macchine parcheggiate nei pressi di un meccanico. Le bugie e la cortesia di persone curiose, affascinanti e diffidenti. Sentirsi sempre come un brutto anatroccolo, come quando si è a casa propria, ma qui anche un po’ ospite. Un corpo estraneo che non sa quanto sia lecita la propria presenza. Riconoscere in un perfetto sconosciuto qualcosa di magico. Rattristarsi perché potrebbe essere uno scherzo, ma scegliere di mantenere una gentile disposizione all’accoglienza. Tutto ha un codice, un tempo, uno spazio, un ruolo. Ci sono appuntamenti (presi per tempo), l’esasperazione per un formale rispetto reciproco camuffato da informalità. Il dare a intendere che bisogna presto imparare a darsi a intendere.

Avrei voluto che il motivo per cui tornai in Olanda dopo la prima volta passeggiasse con me, vivesse con me lo sforzo di vedere, sentire, toccare, cercare, provare a capire una malinconia sottile che mi sembrava avvolgesse tutte le persone che ho incontrato per strada e che era dissimulata; come era dissimulata la civile e composta mancanza di reale confidenza, malgrado la delicatezza e la gentilezza dei loro sentimenti. Se ci fosse stato, a camminare al mio fianco, avrebbe capito, forse, che doveva esserci un motivo valido se – malgrado provassi, e provi tutt’ora affetto per una terra sabbiosa strappata al mare e ai suoi appassionati e indipendenti, originali abitanti – tornavo da quelle parti.

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