Yes, we can

Sabato mattina, solo qualche euro in tasca, pensando alla sera che mi aspetta, cerco tra migliaia di bancarelle che mi propongono affari irresistibili. Accanto a me una signora ingioiellata fruga tra borse false in cerca di una marca da poter sfoggiare alla cena con le amiche. Una borsa Louis Vuitton, un portafogli Hermès, magari una collana Chanel. Come sarà elegante stasera, nessuna delle sue amiche potrà mai pensare che siano falsi quegli oggetti, indosso a lei non si capisce, è così di classe. Dopotutto ha sempre comprato nei migliori negozi ed ora che il marito ha qualche problemino con la crisi passeggera, simula ricchezza in attesa del New Deal. Le passo accanto ed è dolciastro il suo profumo, quel tipo di dolcezza che caratteriza la putredine, le vedo le unghia affondare sulla pelle della simil Gucci e lo smalto mi appare rosso sangue. Meglio distogliere lo sguardo.

Mi faccio strada tra ambulanti e urla fino a trovarmi davanti a delle imitazioni di Paris Hilton, due donne, madre e figlia, tra le loro dita affusolate collane false, ciondoli di Hello Kitty, giolielli da due soldi. Dalle loro labbra di plastica escono suoni spaventosi, vogliono vendermi una finta collana di perle, a quanto mi dicono è di gran moda e costa poco. Non riesco a distogliere lo sguardo dai loro falsi capelli decolorati, dalle loro scarpe, estremamente scomode per vendere al mercato. Mi accecano con il rosa dei loro abiti ed i gioielli che indossano riflettonno una luce che mi abbaglia. Anche il venditore di pesce sembra essere rimasto abbagliato, le guardo, loro lo sanno e ne sono lusingate, io ringrazio e passo altre.

Sono arrivata a quel mercatino per fare l’affare della giornata, ma non ho ancora trovato nulla. A due passi da me, invece, qualcuno sembra aver trovato l’acquisto del secolo. Intorno alla bancarella c’è tanta gente, forse ne vale la pena, mi avvicino.

Improvvisamente sono accerchiata da massaie che in un momento di transfert si sono trasformate in arredatrici estreme. Sono tutte intorno ad un ragazzo indiano che vende tappeti a prezzi irrisori. Le donne lo accerchiano, continuando a chiedergli “Che costo ha?” ed ad ogni risposta del venditore si fingono deluse da un prezzo esorbitante, il loro spirito di arredatrici esce fuori con estrema arroganza, quel tappeto non vale tanto, non è “”Made in Italy” e quello non è un negozio, chiedono uno sconto e quando alla fine lo ottengono le loro avide mani prendono il tappeto e lo infilano a farza nel carrellino della spesa tra un chilo di pomodori e duecento grammi di mortadella.

Finalmente arriva anche il mio di momento, scorgo un venditore che sembra avere la marce adatta, anche se non sarà facile portare a casa la preda, intorno a me altre, molto più esperte di me, hanno adocchiato lo stessa “maglia”. Dopo qualche tira e molla, spinta e finte, ho capito che avrei rischiato di ricevere qualche tipo di offesa, sia verbale che fisica.

Così mollo tutto e decido di tornare a casa, inizio a pensare alle alternative che mi offre l’armadio e me ne faccio una ragione.

Ma ciò che di tutta questa grottesca vicenda mi ha colpito è stato il fatto che tutte quelle donne e tutti quegli uomini, fossero ossessionati da un sola cosa: il costo.

Ma ogni qual volta compriamo qualcosa, ci chiediamo quale sia il vero costo di quel prodotto?

Quale sarà il reale costo di una borsa contraffatta, di un tappeto, di una collana simil Chanel, di una Hello Kitty sorridente?

Molto spesso dietro i prodotti che compriamo c’è il lavoro coatto. C’è il lavoro ininterrotto di operarie, operai e di bambini dei Paesi “in via di sviluppo”. C’è la loro schiavitù, l’infanzia negata la mancata libertà di scelta in un mondo dove l’alternativa è non mangiare.

Molti bambini che lavorano nelle industrie manifatturiere, si trovano lì perchè devono scontare il debito dei loro genitori, se non dei loro nonni. Infatti il prestito fatto da un ricco imprenditore o proprietario terriero del luogo, deve essere risarcito e se non se ne hanno i soldi per farlo bisogna lavorare per lui. Così bambini molto piccoli sono lì a pagare un debito, le loro piccole dita cuciono e raccolgono frutti. Sono bambini che nascono già con un conto aperto. Sono bambini che se piangono perchè vogliono la mamma vengono picchiati, scottati con le sigarette o appesi per i piedi ad un albero.

Immaginate allora quanto in realtà sia caro il prezzo dei prodotti che ci portiamo adosso, delle borse al braccio, delle collane al collo. Adesso pesano molto di più.

Per far si che tutto ciò possa cambiare, o quanto meno migliorare, è indispensabile che gli acquirenti siano educati ad acquistare solo ciò che è stato realizzato nel rispetto dei diritti umani.

Oggi in India i bambini lavoratori sono trecentomila nella sola industria dei tappeti, ed il loro lavoro frutta ben seicentomilioni di dollari l’anno. E’ evidente quanto sia fondamentale il ruolo del consumatore.

Molte associazioni non governative, hanno proposto l’obbligo di una etichetta che certifichi la produzione del prodotto. In questo caso è importante guardare l’etichetta!

One thought on “Yes, we can

  1. Non è così facile, come hai scritto in parte, la gente che frequenta questi mercati e si rivolge a questo genere di merce è gente che deve fare sempre bene i conti in tasca. Persone che probabilmente manderebbero a lavorare i loro figlioletti per portare più soldi in casa, visto che non bastano mai.
    Comprare all’equosolidale spesso è una cosa proibita ai più e il modello di vita che dovremmo cominciare a seguire dovrebbe essere avere di meno ma meglio, invece il consumismo dice “avere di più, anche se di bassa qualità” e qui ne godono i cinesi.
    Poi il fatto che non bastino mai per avere l’iphone o l’sh 300 è un altro discorso, ma nulla toglie che il ragazzino a lavorare ce lo manderebbero e quello ci andrebbe pure volentieri se il risultato è u motorino.

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