Mobilità o Emigrazione?

di Francesco Siragusa

Durante uno dei miei girovagare all’estero, tra le voci dell’onnipresente connazionale, che mi ricordano che non sono mai abbastanza lontano da casa, e i giornali stranieri, che dedicano sempre qualche pagina alla mia amata patria, mi sono chiesto se l’emigrazione, certo ancora argomento attuale (soprattutto sui quotidiani nazionali: agli stranieri, di noi, piacciono più gli scandali), sia lo stesso fenomeno sociale di sempre oppure si sia evoluta in qualcosa di più temporaneo, parziale, meno netto insomma. Ma soprattutto mi sono chiesto quale sia il senso, dopo secoli di emigrazione, di questa odierna mobilità.

Oltre alla somiglianza nei numeri, tra i giovani che ancora oggi lasciano questo tormentato Sud e quelli della gente (altrettanto giovane!) che ha abbandonato le città e le campagne meridionali, nei secoli scorsi, mi viene da chiedermi se si possa davvero paragonare l’emigrazione di disperati che andavano verso terre più o meno lontane, a quella che forse oggi dovremmo chiamare appunto “mobilità”.

L’idea stessa di viaggio è completamente cambiata: si possono fare viaggi restando seduti nella propria casa con gli attuali strumenti tecnologici, ma paradossalmente si può anche  andare in un altro continente e trovare molto del proprio Paese. E non sono certo paragonabili le traversate oceaniche ai viaggi odierni, dove spesso il tempo e lo spazio mutano tanto velocemente, quanto la nostra mente, sempre più pigra, non è abituata a fare (se avessimo continuato ad usare la fantasia non avremmo lasciato aprire un McDonald in ogni angolo del globo per avere la rassicurante e familiare presenza di un ristorante conosciuto).

Insomma, non è mica lo stesso emigrare ora che si possono percorrere mille e più km in un giorno, adesso che con un click si può chattare, telefonare, videochiamare… (non è la vita già abbastanza virtuale tra  abitanti della stessa città?)

Certo, guardandosi un po’  intorno, le condizioni di lavoro, che spesso sono state il primo motivo per emigrare, restano ancora oggi difficili, basti pensare che a Pomigliano gli operai della FIAT sono stati chiamati, attraverso un referendum, a scegliere tra la perdita del lavoro e la perdita del diritto allo sciopero: proprio adesso che persino in Cina hanno cominciato a protestare (salari bassi, tasso di suicidi degli operai tra i più alti del mondo, diritti quasi inesistenti). Già, Pomigliano per parlare di chi un lavoro comunque l’ha, e anche la cassa integrazione.

Chi andava via, pur con la malinconia per aver dovuto voltare pagina al proprio passato, trovava altrove la possibilità di sopravvivere, il diritto di “cercare la propria felicità”. E spesso in questa ricerca alcuni trovavano condizioni lavorative nettamente migliori, quando non il successo. Ma questo accade ancora oggi, tanto che viene da chiedersi perchè tanta gente non riesce a combinare un bel nulla nella propria terra, ma “altrove” sì, tanto che siamo soliti dire “Cu nesci, arrinesci”1. E spesso, davanti a tali esempi, quanti di noi non si sono mai chiesti perchè non si possa trovare lavoro, costruire ferrovie e autostrade, fare ricerca qui, ad Agrigento, a Cosenza, a Pomigliano?

Se ancora non abbiamo imparato la lezione, è perchè la condizione e l’esperienza di emigrante, ancora oggi vissuta da milioni di meridionali, non è stata davvero resa parte della nostra cultura, ed è volutamente presentata come la storia degli sconfitti, di chi è andato via, di individui che in fondo non sono nemmeno più considerati come connazionali, ma come gente che ha perso le proprie radici. Gente che viene celebrata magari solo quando bisogna sponsorizzare il “made in italy”.
Se avessimo fatta nostra questa lezione, di certo i concetti di “accoglienza” e “tolleranza” sarebbero ben più radicati nella nostra cultura. Avremmo imparato a gestire meglio il fenomeno dell’immigrazione invece di partorire idee come i respingimenti: pensate se gli USA avessero incaricato il governo messicano di bloccare le navi e portare i passeggeri in qualche prigione nel deserto costringendoli a firmare (la maggior parte di loro erano analfabeti) un foglio in cui accettavano di essere rimpatriati! Gli “Stati Uniti d’Europa”, grazie all’esperienza di due nazioni che hanno vissuto il fenomeno dell’emigrazione come nessun’altro (Italia ed Irlanda), dovrebbero avere sviluppata già da tempo una politica che sia in grado di volgere in positivo queste risorse e di garantire a queste persone una serie di diritti di cui ci riteniamo esportatori, e che invece vengono violati quotidianamente nei nostri CPT, CIE e nelle nostre città.

Chi andava via, e chi va via ancora oggi (tra il 1990 e il 2005, quasi due milioni di persone sono emigrate verso il Centro-Nord e l’emigrazione dal Sud, isole incluse, ha ripreso vigore nella seconda metà degli anni Novanta, interrompendo un trend decrescente che durava dai primi anni Settanta; all’inizio del decennio in corso il deflusso si è nuovamente attenuato) soffre certo per i sacrifici e le rinunce che ha dovuto fare per ambire a migliori condizioni (quando riesce ad ottenerle), ma soffre soprattutto per la mancanza/perdita della propria cultura e dei propri affetti. Ma se è vero questo, è anche vero che adesso è più facile vivere altrove la propria identità, restare parte di un popolo (sia chi è partito, che chi è rimasto) che proprio dall’esperienza dell’emigrazione può tirar fuori la voglia di migliorarsi, di reimpossessarsi del proprio destino e chissà, speriamo un giorno, anche della propria terra.

Il futuro ci vede di fronte a questa sfida: fare in modo che questa mobilità sia sempre meno a senso unico e sempre più produttiva. Bisogna creare le condizioni perchè le qualità acquisite dai giovani laureati che sono andati all’estero a lavorare possano essere gratificate anche qui, bisogna far sì che molte più persone accettino la sfida di migliorare la propria terra, di lottare per creare qui opportunità, e infine, bisogna diventare sempre più una società multietnica, rinunciando ai campanilismi e diventando orgogliosi della propria capacità di accoglienza. Di emigrazione e integrazione, dopotutto, dovremmo intendercene.

Cuvernu tedescu benedittu

a migghjara accoghisti li migrati

a tutti ci dasti ogni dirittu

e nui pe chistu ti simm grati.

Lu distaccu di l’Italia fu assai duru

partimmu chjni di tristizza

a la Germania trovammu lavuru

e presto arrivau la cuntentizza.

A la Germania mi facisti migrari

lu trenu piggjavi sulu sulu

e mo ch truvai bonustari

cuvernu talianu, vaffanculu!

(Poesia di un emigrante calabrese…)

1Chi va all’estero, realizza i propri sogni

6 thoughts on “Mobilità o Emigrazione?

  1. Uaoh! Sono contento di “leggerti” su abattoir!
    Beh io trovo che il nostro modo di pensare sia sbagliato… non l’emigrazione in sé.

    Noi siamo cittadini del mondo (se non dell’universo), abbiamo i piedi o i più comodi aerei per spostarci di città in città, di paese in paese.
    Qualcuno ha commesso forse un errore a dire “Questo è mio!”. Oggi a distanza di millenni ne paghiamo le conseguenze. Qualcuno si sente invaso dai tanti stranieri perlopiù di colore diverso (e quindi facilmente individuabili), qualcun altro lascia nel deserto (notizia di oggi) senza acqua e vestiti la povera gente che cerca di sopravvivere cercando opportunità di vita più favorevoli, qualcun altro cerca di dividere un tricolore in due e qualche muro ci riesce. Io mi sento arricchito da culture diverse e mi piace assorbire quanto più posso ogni qual volta vado da qualche parte (cibo esotico anche se poco invitante, dizionario, contatto con la gente) e spero di portare la Sicilia con me e farla rivivere con i miei racconti di notti d’estate di chitarre, lanterna e mare.

  2. Mi piacerebbe parlare di mobilità, ma forse non siamo ancora culturalmente pronto e la battuta di Troisi in “ricomincio da tre” in cui sentendolo parlare con accento napoletano a milano gli chiedono se è un migrante e lui risponde sempre chiedendosi perché mai nessuno lo considerasse un turista.
    Oggi se ti sposti a Bologna, la terronia della Padania, non te lo chiedono se sei migrante, lo danno per scontato.
    Mi piacerebbe parlare di mobilità in cui io vado a lavorare a Milano e i milanesi qui in Sicilia, anche se fossero imprenditori e non impiegati. Invece a 150 anni dall’Unità di Italia siamo ancora separati, c’è ancora un forte confine ideologico che impedisce la mobilità.
    Oggi noi nelle nostre emigrazione nazionali e transnazionali abbiamo la fortuna di rimanere “connessi” alle nostre radici e ai nostri cari, ma oggi le sono in molti a non avere questa possibilità e vivere la migrazione come atto di sopravvivenza che descrivi tu.
    Dovremmo ricordarci tutti quando eravamo noi i Gastarbeiter :-)

  3. Sfruttare bene le risorse è una chiavica per l’Italia. Così presuntuosa nel fregare il prossimo e poco intelligente nelle azioni di marketing, quando tende a far scappare il cittadino e il turista al posto di trattenerlo affettuosamente e sentimentalmente con sè.

  4. Alla faccia della globalizzazione, direi.
    Che ogni paese sia un universo tendenzialmente chiuso (forse perché qualcuno ha detto “questo è mio secoli fa”, forse anche perché è naturale cercare l’affiliazione tra i propri simili) è palese e ci sta; lo vedi subito per strada, quanto tutto sia spiritualmente diverso.
    Poi però ci sono paesi che aprono alcune porte scambiando culture, altri che le sbarrano, altri ancora che millantano gradi cose e possibilità e accoglienze, però poi ti sputano in faccia appena questa apparenza da talk show finisce e si spengono le telecamere. E quello è il momento in cui si parla di sporchi negri che ci rubano il lavoro nei tg di Minzolini e Fede, o forse un po’ in tutti.
    Poi la mobilità…. anche lei purtroppo è altamente razzista, e noi siamo stupidi a non sapere investire nelle risorse più sane del nostro paese (vedi pulizia, vedi ordine, vedi università e cultura).

    Ma… le nazioni non possono fallire come un negozio?

    • Beh, le nazioni possono fallire eccome, vedi la grecia. Quello che si spera non fallisca, è la cultura di un popolo, le storie, la lingua…
      Il segreto secondo me sta, nell’essere aperti al nuovo ed essere capaci di rielaborare le proprie esperienza. Ognuno ha il proprio patrimonio culturale e insieme si fa una nazione; che poi questa nazione sia piccola grande o transcontinentale, quello dipende dalla capacità di integrazione, che in questo senso vuol dire saper far sentire la propria voce senza la necessità di alzar “troppo” il volume ma senza “dis”integrarsi in qualcosa che per andare oltre ed essere più vendibile diventi totalmente privo di contenuti

  5. Posto la parte trovata più interessante di un articolo del sole 24, che completa e in un certo senso approfondisce l’argomento che volevo trattare nell’articolo:
    “….ho l’impressione che qualcosa di differente sta accadendo a una parte d’Italia. Queste persone e molte, moltissime altre sono l’Europa, senza bisogno di troppi discorsi e teorie, e hanno capito qualcosa che i teorici dell’Europa non hanno mai capito: che l’euro e l’Europa sono la possibilità di restare italiani, greci, spagnoli, francesi senza essere umiliati dalle stupide politiche nazionali dei rispettivi paesi. Essere europei significa mantenere una propria identità senza doverla confondere con un’appartenenza a una classe dirigente che in patria blocca i processi d’apertura e trasformazione.
    Ovviamente questo è il quadro positivo, profondamente innovatore di questa compagine di nuovi europei, sono quello che George Steiner chiama “luftmenschafte”, uomini dai piedi leggeri, una definizione sprezzante con cui i nazisti appellavano gli ebrei e tutti i cosmopoliti. La parte tragica sta nel fatto che questo è il risultato di un’espulsione: per l’Italia si tratta della liquidazione di una potenziale classe dirigente di professionisti, pensatori, ricercatori, imprenditori. E questa è davvero una tragedia: ognuno dei miei amici italiani in Europa condivide amari ricordi di strade bloccate, di rifiuti, di offerte di lavoro ricattatorie, di posti universitari in cambio di una beota fedeltà alla noia accademica.
    Allora stare in Europa è diventata anzitutto una forma di cura, un dirsi: ma no, ma no, il mondo non può essere così meschino, c’è merito, speranza, possibilità di trovare persone con cui costruire assonanze e con cui inventare, sperimentare, creare senza il peso di coloro che hanno sempre fatto sì che il mondo dovesse sembrare solo un circolo chiuso e vizioso.”

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