Un siciliano ai siciliani: “Ma dov’è il nostro animo?”

“L’atto più rivoluzionario che si può fare in questo momento è quello di informarsi e sapere. Quando tutti sapranno, non ci saranno più bavagli che tengano.” (Marco Travaglio, Palermo, 22-06-10)

C’è vento a fine giugno a Palermo.
Il Kursaal Tonnara è all’aperto e sul mare, eppure la platea è piena sotto gli occhi di Marco Travaglio, Marco Lillo, Udo Gumpel e Salvatore Borsellino; la gente è ammucchiata, in piedi e seduta un po‘ ovunque, stretta nelle proprie spalle per la presentazione di Sotto Scacco, un docufilm che – come una ruota panoramica – tratteggia senza peli sulla lingua le vicende Dell’Utri-Mafiopoli, la fisionomia di un Paese in cui spesso la gente nasce già prona a 90 gradi, la “punciuta” originaria di Forza Italia, la cultura del bavaglio e dell’omertà di un popolo silente sui minigolpe che il berlusconesimo ci propina quotidie.
Miss D’Aleo mi fa notare che Salvatore Borsellino è uguale al fratello ma senza capelli, e che a sua volta Rita Borsellino è uguale al fratello ma senza baffi. Lo osservo: è un uomo sofferente e dichiaratamente malaticcio; penso velocemente che la presenza di questi fratelli cambia le cose oggi, è la testimonianza vivente che anche in (mis)fatti di mafia ci si può esporre con orgoglio e coraggio, che non per forza bisogna nascondersi, ripudiare, fuggire a gambe levate per salvarsi la pellaccia.
Borsellino jr. attende composto il suo turno, poi parla ininterrottamente per quasi 20 minuti.
Il posto, la gente, le menti seguono l’orazione visceral-popolare di quest’uomo che sembra faticare a pronunciare ogni singola frase, che ha la gola asciutta, eppure fa onore alla dialettica greca. Non è un intellettualoide, il suo è un climax di rabbia che parte piano, quasi imbarazzato; sembra gli vengano meno le forze e le corde vocali, ma a poco a poco carbura, inizia ad alzare la voce rauca e secca, a farsi ascoltare.
Racconta dei suoi iniziali tentativi da “ingegnere che lavora coi computer” di parlare alla gente, di sensibilizzare i giovani nelle scuole, di quando, fino al ‘97, la reazione della società civile e dello Stato alle stragi gli faceva nutrire la speranza che la morte del fratello fosse servita a cambiare le cose.
Quindi accenna alla sua disillusione, nata sulle ceneri della reazione della società civile e sulle false ceneri della pseudo-reazione dello Stato… Una disillusione al contempo madre e figlia della consapevolezza, della certezza che la strage di via d’Amelio non fosse una strage di mafia, ma una strage di Stato.
Sfonda con calma i cervelli parlando di un magistrato, di un uomo che non fa più le coccole alle figlie per facilitare il dolore del distacco che la sua morte avrebbe provocato; dipinge di rosso una orrenda seconda repubblica fondata sul sangue, inizia a urlare con le guance contratte di un baratro senza fondo, che quando sembra di arrivare al fondo si capisce che il fondo è ancora più in basso. Allora si rivolge ai palermitani che non vede più, li cerca con le parole sforzando le laringe, ricorda che pur esistevano 17 anni fa, quando cacciavano a pugni, a schiaffi, a sputi quei politici che si erano presentati come avvoltoi ai funerali del fratello, e che ancora continuano a palesarsi con le loro belle corone di fiori recisi il 19 luglio in via d’Amelio, quasi ad assicurarsi che Paolo sia veramente morto.
Ed è lì che si sgola, con tutta la mia stima, e mi chiedo diverse volte se ce la farà a finire questo discorso che sembra consumarlo di rabbia dall’interno, di disillusione, di speranze quasi sconfitte ma che vale la pena di rianimare.
Ci chiede ancora in un modo tutto suo – il migliore che fin’ora ho sentito, il più vero, profondo, stomacale – dove sono i palermitani; ci dice con una debolezza non più debole, che è la forza di chi ha già perso molto, di svegliarci; ci supplica con rabbia di recuperare la memoria, di non cancellare parti neuronico-dignitose della nostra storia, della nostra mafia, Cosa – appunto – Nostra. Quelle parti che vogliono estirparci dai cromosomi e che qualcuno riesce per bene a farsi oscurare da dentro.

Poi parla del sangue sull’Italia, dell’angoscia che trovino altre maniere per uccidere procure e magistrati, omicidi senza sangue, metaforici, ma ben più concreti che tengano buona la folla, che non possano scatenare reazioni violente, che possano lasciare tutto a tacere più di una dose di bromuro… Come tutto tace da anni, nonostante Ciancimino e Spatuzza oggi strappino i veli neri dei misteri mafioitaliani, nonostante strane persone ritrovino improvvisamente la memoria, dopo 17 anni. Già. La memoria intermittente e selettiva dei vari Grasso, Violante, Martelli.

“Noi non dobbiamo aspettare ancora una volta di avere degli eroi! Questi magistrati dobbiamo proteggerli prima che li tocchino, non piangerli dopo come degli eroi. …Anche se questa parola oggi non possiamo neanche più adoperarla, se è stata adoperata per Vittorio Mangano.”

Qui il picco vocale, facciale, gestuale; gli occhi e la bocca contratti, la mano stringe il microfono spasmodica, mentre chiede di sostenere i magistrati, di non lasciare che dall’alto ci tolgano gli strumenti per combattere, per lavorare, mentre il governo si gloria infantilmente dei risultati conseguiti nella lotta alla mafia… Lotta del governo contro la mafia, sì. Di questo governo ad mafiam che si pasce della morte dell’opinione pubblica, del ricercatissimo funerale della sua voce.

“Ma dov’è il nostro animo? Come facciano a essere figli di quei martiri della Resistenza che hanno fatto scrivere quella Costituzione che noi oggi accettiamo che venga vilipesa giorno per giorno, che venga distrutta, che si faccia strage di quella Costituzione! Noi non possiamo accettare tutto questo. Noi non possiamo accettarlo. Noi dobbiamo reagire, noi dobbiamo lottare, e non delegare agli altri la lotta, non delegarla agli altri, ciascuno di noi deve farsi parte attiva per fare quelle cose in cui crede, ciascuno di noi se veramente crede in certe cose deve porsi in prima persona.
Vi aspetto, vi aspetto tutti a Palermo quest’anno, il 19 luglio, con le agende rosse in alto, ad impedire che questo luogo venga ancora una volta profanato.”

L’accento è siciliano, non si ferma il fiume di parole su questa lunghissimo stralcio, ma il tempo per scandire “vilipesa” e “reagire” Salvatore Borsellino se lo prende. E respira solo alla fine.
Dopo 20 minuti passa il microfono, si aggiusta gli occhiali, abbassa dignitosamente lo sguardo; sembra stanco, serra le labbra, toglie gli occhiali neri come a non poter reggere il peso delle sue stesse parole o forse incredulo alla reazione di risveglio del pubblico, raccoglie il viso tra le mani, lo avvolge per una frazione di attimi, allarga la grande mano ad accettare gli applausi, ma l’espressione è sofferente. L’applauso alla fine è lungo, il pubblico urla “bravo“, ma l’espressione rimane sofferente.

Resta dentro la sua naturalissima capacità di infiammare neuroni, di risvegliare folle di coscienze senza parole ricercate, solo con l‘esperienza di chi ha pianto e ha visto piangere su pezzi di carne umana macellata illegalmente dallo Stato.
Voci vere, mentre gli apparati di disinformazione continuano a nasconderci la verità.

One thought on “Un siciliano ai siciliani: “Ma dov’è il nostro animo?”

  1. Sì, tenere viva la speranza quando sembra che tutto precipiti!: “..La speranza è ciò che non cessa di respirare nei suoi indebolimenti. Balza in evidenza nello scoramento e nell’esasperazione che sopraggiungono per un evento determinatosi nell’intimità dell’essere abbandonato a se stesso, o prigioniero di una situazione senza uscita. E’ nel negativo che la speranza trova il proprio luogo..E’ un ponte tra la passività e l’azione..” (Maria Zambrano)

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