di Giorgio D’Amato
E a Ginuzzo che per il pranzo organizzato dallo zio Totò avrebbe ordinato aragoste che cantano e un pesce spada con la testa (e pure champagne) – zu’ Totò, la testa del piscispata è simbolo di potenza, così lo capiscono tutti che ora a comandare è vossia, – lui testiò dandogli la negativa, che le aragoste e il piscispata erano cose del passato, che il vento ora tirava da dentro verso fuori, dove stanno i corleonesi con le scarpe sporche di terra e di stalla, che questi che li chiamano villani – che sono più civilizzati di loro, sottolineò lo zio Totò – sono così potenti che ai signorini di città abituati a pesce spicchiato gli faranno fare una bella mangiata semplice e genuina, tutta sostanza alla maniera di campagna, con i sapori della natura, semplice “com’è che noi pensiamo: che noi le diciamo le cose che vogliamo, le mettiamo per iscritto nero su bianco, e le facciamo recapitare a chi ha gli occhi per leggere. Noi, Ginò, non siamo traggediatori, noi non ci facciamo la bocca di zucchero per ottenere le cose, noi siamo semplici: o così o pietrate”.
Lo zio Totò poi continuò un discorso tutto suo che allo Stato lui i favori li poteva pure fare, che lui non si impressionava a sporcarsi le mani, l’importante era che lo Stato poi gli doveva garantire il sapone, “e ora vai da mio compare che dice che ha allevato una bella pecora per me e gli domandi qual è: se non è la più grossa, tu gli dici che se la può tenere e la scegli tu invece. Poi ci spari e me la porti senza pelliccia, senza budella. Mi raccomando portami la testa, il fegato e il cuore, che sono i bocconi migliori”.
Ginuzzo tornò con l’animale fatto a pezzi, la testa e le frattaglie in cima che si doveva vedere che era stato preciso. Trovò il bruciatore acceso e una pentola da reggimento.
Lo zio Totò diede istruzioni che la pecora “prima deve bollire, poi si butta l’acqua, si mette acqua fresca e di nuovo deve bollire, per tre volte, così che gocciola il grasso e butta fuori il tanfo di beccume”.
“Come le femmine che non si lavano?” disse Ginuzzo.
“Parla pulito” gli disse lo zio Totò; all’ultima bollitura disse di aggiungere il sedano e le carote, e quando arrivavano gli ospiti, di pigliare tre coppi di spaghetto spizziato e di calarglieli, “che oggi alla faccia di tutti i palermitani si mangia picurazza – e se ne resta, non la buttare, che domani me la riscaldo, che pulisce lo stomaco”.
Quelli che dovettero mangiare per forza – i palermitani – dissero che meno male che c’era il vino di casa, che pareva benzina ma almeno stonava la puzza di quella brodaglia fitusa.
ecchebbello essere in Abattoir!!! buona lettura!
gd
Giorgio, grazie a te, ché come certe cose le descrivi tu non se ne trovano facile (: aggiorniamoci!
Wow… ne ho sentito u fetu… :)