Non sono un poeta, sono un lavoratore LAP

di Faber L. Gray

Il giorno di un ragazzo che lavora al callcenter. Lavoro precario.
Impossibilità di guadagno/risparmio, indipendenza economica, vivere da soli.
Stress e insoddisfazione.

È più produttivo spendere quattro ore del mattino su un piccolo appezzamento di terra e coltivare le primizie di stagione, patate novelle o cipollotti o spinaci, che sprecare quattro-dico-quattro ore a star seduti su una sedia, quasi sempre con lo schienale rotto, ad una postazione notoriamente famosa per essere covo di germi e batteri, con una cuffia  non personale alle orecchie e un monitor davanti agli occhi. Senza tralasciare la speranza di trovare oggi una campagna attiva così da poter lavorare con una buona contattabilità e poter sperare che i clienti da chiamare siano predisposti all’ascolto – una gran bella rarità trovare gente disposta ad ascoltare! ma dove siete ascoltatori?
E la sveglia che trilla un’ora prima del turno di lavoro per esser sicuri di prepararsi in tempo così da arrivare in orario in ufficio. Lavarsi, vestirsi, far passeggiare il cane, prendere la borsa, entrare in macchina, attraversare la città a velocità di crociera media di 15-25Km/h fra camion, automobilisti nevrotici e semafori pedonali attivati da motociclisti. Cercare un posteggio, entrare in ufficio, cercare una postazione libera, perchè si è come un centinaio di sardine dentro una scatoletta da 50gr – ah, le discutibili politiche di assunzione e sfruttamento del lavoratore a contratto LAP! – posteggiare il culo sulla sedia per due ore, poi dieci minuti di pausa caffè e sigaretta, altre due ore davanti i numeri. Traffico, casa, stress. Basta!

Tutta questa pianificazione per sei giorni su sette, quattro volte al mese per un mese; poi forse per altri due mesi, poi forse per un altro mese, poi forse se sei bravo per altri tre mesi, e così via… Si potrebbe dire una vita di certezze!
Nella perenne attesa di essere così ricchi da potersi permettere di riprendere gli studi, comprare casa, pianificare le nozze, cambiare città, lavoro, vita.

Sono io, sei tu, sono loro, è lui, è lei, è maschio, è femmina, spesso giovanissimo e volentieri maturo, purtroppo. È piegato dall’attuale panorama economico e lavorativo; non è una gran vista, troppo peggiorata negli ultimi quindici anni.

“Che lavoro di merda. Che lavoro ripetitivo.”

Con questo lavoro, ogni giorno, le parole perdono significato; solo le conferme dei “sì”, gli “ok” e i numeri acquistano significato.
Disimpari quasi come si scrive, o l’uso migliore dei tempi verbali, o delle espressioni.
La cultura uccisa dal callcenter, nella finzione di una sicura illusione di saper parlare in perfetta dizione, richiesta per l’occasione, e nulla più.

“Grazie per averci contattato, Le auguro una buona giornata, arrivederci.”

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